Florencia Martinez, la trama del quotidiano

 

di Silvia Fabbri.

Florencia Martinez è un’artista che ha da sempre rivolto la sua ricerca all’aspetto più intimistico e nascosto della quotidianità, alla memoria di fatti ed eventi fissati nel ricordo comune, alle storie di affetti perduti, ai ricordi del nostro dopoguerra, per raccontare con la fotografia, la pittura, il ricamo, il collage, come con le sue installazioni e con ogni forma d’arte e di tecnica che ha sperimentato, storie di persone, di oggi come del passato.

Affascinata dai fatti di cronaca più dura e spietata, dalle storie drammatiche del nostro mondo disgregato, come dalle inestricabili e oscure storie di famiglia, di “scheletri negli armadi”, di intere genealogie fatte di infiniti avi e bisavoli, a lei vicinissimi per storia o affetti o che ha solo sfiorato per un istante, il tempo di un foto o di un ritratto, in un perenne oscillare tra questi due mondi differenti, che l’hanno ugualmente attratta fin dal suo arrivo in Italia, nel lontano 1990, Florencia si muove su tematiche differenti, ma inestricabili: da una parte, indaga sulla complessità delle dinamiche familiari e sull’universo della donna, sul mon­do dell’infanzia, sull’emarginazione e più in generale sull’identità, dall’altra sull’iconografia del viaggio inteso come abbandono e ricerca di nuovi mondi, utilizzando materiale fotografico del dopoguerra rielaborato e ricreando atmosfere e climi dell’epoca, con un personalissimo lavoro di ricerca.

In questa nuova installazione dal titolo emblematico, Florencia rievoca un mondo e un’Italia ormai perduti, quella del “miracolo economico” dell’immediato dopoguerra, degli anni ’50 e ’60, con una serie di vecchie macchinine giocattolo, conservate in un lontano garage, scarnificate, bruciate dal fuoco, arrugginite, superstiti di un incendio che ne ha preservato quasi solo l’ossatura.

“Quando me le hanno portate,” racconta Florencia “impolverate e mezze distrutte, la prima cosa che ho fatto è stata quella di dipingervi la bandiera italiana, con un gesto simbolico di appropriazione di un paese che ormai sento mio, ma che vedo distrutto immobile.” Con questi modellini, perfette riproduzioni delle elegantissime Bugatti con cui Tazio Nuvolari sfrecciava negli anni ’50 tra le campagne e la provincetta italiane nella famosa Millemiglia, Florencia ricrea voci e volti di quegli anni, e l’intensità emotiva che ci lega a quel clima ancora per noi mitico e meraviglioso, avvolgendo e ricoprendo quasi ossessivamente di tessuti intrecciati, aggrovigliati a forza, cuciti e ricuciti, i pezzi di manubrio, le ruote rotte, le capote, e aggiungendo foto di bambini, in una forma di ricostruzione di ciò che il fuoco ha distrutto e di quel periodo di storia italiana che i tempi hanno annientato, con una lotta contro il tempo che sembra essersi perfettamente cristallizzata.

“Sono arrivata in Italia da Buenos Aires inseguendo un sogno,” racconta Florencia “con negli occhi i paesaggi e gli scorci dei film di Fellini, di Olmi, dei Taviani, della Wertmuller, che avevo visto e rivisto in Argentina. Qui camminavo per le strade estraniata, sentendomi sospesa come in un film, e con la sensazione di non appartenere a nessun posto. Ora però sono delusa e, seppure l’impressione di essere in una pellicola d’altri tempi rimane, non riconosco più nell’Italia di oggi il mio sogno di prima.” Queste opere parlano di quello che è rimasto dell’Italia di allora, ma rappresentano anche un tentativo di ridare valore a quello che è stato, e quindi l’artista, con un gesto fortemente simbolico come il cucire, ferita e ricostruzione insieme, sofferenza e legame, le arricchisce di “una dignità da sopravvissute”, simile per certi aspetti ai meravigliosi Libri cuciti che Maria Lai crea sui telai con grovigli inestricabili e trasforma in geografie fantastiche.

Riprendendo così un lavoro avviato agli inizi del 2000, dove il tema dell’immigrazione e delle foto anni ’50 diventavano occasione per un racconto narrativo e quasi di mappatura di un ironico immaginario dell'”émigré”, ora Florencia interviene in maniera più dura e con un materiale per lei nuovo e inusuale, fatto di acciaio e ruggine, ricostruendo, come in una piccola miniatura alla Boltanski, memorie e ricordi di se stessa e del proprio passato con oggetti appartenuti ad altri. Con un rituale quasi performativo, ha lavato, levigato, ricostruito – “mi sentivo come come la protagonista del “Paziente inglese”, persa in un’ossessione esclusiva di accudimento quasi maniacale” – e preservato la ruggine di queste macchinine fissandola per sempre, e ne ha esteso le trame fino al di fuori della loro superficie in una trasformazione quasi naturale.

Nel contempo infatti, a fare da contrappunto concettuale e materico allo scorticamento di questi simboli della “disillusione e della furia crudele del tempo”, Florencia ha inaugurato un’altra serie di opere su tavola con le sue stoffe ritorte e avvolgenti, morbidi “chorizones” colorati, che si estendono in successive sovrapposizioni intorno alla tela, in un abbraccio pervasivo quasi a soffocarne il soggetto, e dove il ricamo acquista valenza letteraria di slogan ossessivo, un leit-motiv scandito da ogni personaggio e immagine.

“Queste opere sono nate quasi contemporaneamente alle macchinine, in un momento di crisi, volevo abbandonare tutto e chiudere, non avevo più soldi, ma a un certo punto mi è venuta la frase “Insisterò”, e quasi inconsciamente ha preso vita questo nuovo progetto, e in risposta alla visione così negative dalla mia Italia perduta, ho ricominciato a lavorare con un fondo di speranza e fiducia nel futuro.”

E così con una cucitura maniacale, con punti sparati e insistiti, con un horror vacui di aristotelica memoria – “la natura rifugge il vuoto” – sono nate queste opere, dotate di una struttura materica che le fa reggere in piedi da sole, come sculture polimorfe. Stoffe coloratissime e arrotolate, dalle fantasie astratte e dalle superfici grezze, assumono forme indefinite, quasi a deformare in un senso o nell’altro l’immagine contenuta nell’opera, ad allungare con una linea l’abbrivio di uno sciatore, o ad accompagnare verso l’alto in un’elegante voluta bianca il volo di un gabbiano. Si intravedono foto d’epoca, in cui una bimba d’altri tempi cammina su un tappeto di giganteschi fiori, tre donne in succinto costume da bagno anni ’30 dal colore seppia che si diffonde sulla cornice e che sembrano fare da paladine a nuove conquiste di libertà femminile, una coppia di giovani in ombrellino quasi nascoste da un florilegio di meravigliosi grovigli. E poi ecco un’altra immagine, rarissima, personale, Florencia con la madre immortalata prima del bagno, accanto a immagini simboli ricorrenti, madri, alberi, radici, legami, quasi a voler riassumere inconsapevolmente le tematiche e la poetica di questi ultimi anni. Un lavoro ossessivo, affascinante, che acquista forze e vigore da una perfetta rispondenza visionaria, cromatica e compositiva, tra l’iconografia delle immagini quasi monocrome e l’allucinata e inquietante pervasività di questi meravigliosi grovigli dove l’occhio si perde attratto da continui dettagli, in un immaginario profondamente femminile ed estremamente originale che la rende assolutamente originale nel panorama dell’arte contemporanea.

Florencia Martinez, La chiamavano Millemiglia – Resisterò fino alla fine

12 | 30 giugno 2014

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