Felipe Cardeña, l’Adorazione del Monolite come metafora dell’egolatria contemporea

L’effetto è straniante, quasi surreale: i Re Magi si fermano alle soglie della grotta di Betlemme a cui li ha condotti la stella cometa alla ricerca del bambin Gesù. Eppure, dentro quella grotta, non c’è alcun bimbo da adorare, nessun Figlio di Dio nato da una madre ancora Vergine. C’è solo, al centro, un freddo monolite di metallo, levigato e asettico come un manufatto alieno. La scena che si presenta agli occhi dello spettatore, e che ricalca quasi fedelmente quella dipinta dai più grandi maestri della pittura quattro e cinquecentesca italiana ed europea (Giotto, Dürer, Botticelli, il Parmigianino, il Bramantino, Cesare da Sesto, Filippo Lippi e il Beato Angelico), ha qualcosa di molto famigliare, al punto da lasciare nello spettatore un senso di forte déja vu. Eppure, se ci si sofferma a guardar bene la composizione di questi quadri, c’è insieme qualcosa di abituale e di inquietante.

The adoration of the Monolith #1
(d’après Giorgione, Adoration of the Shepherds, National Gallery of Art, Washington DC).

Il monolite di metallo, del tutto simile a quello trovato nel deserto dello Utah (e poi ricomparso qua e là in giro per il mondo), si è preso il centro della scena, sostituendo l’immagine dolce e rasserenante del Bambinello.

Eppure, i Magi non sembrano stupiti, non mostrano di preoccuparsene né di sentire l’assenza del Figlio di Dio. Anch’essi, come bizzarri coprimari di un passato ucronico, sono completamente calati nella  scena, ne sono attori, comparse, interpreti privilegiati. Sono loro stessi, col riflesso dei loro volti che si rispecchia sulla superficie del misterioso oggetto levigato, i protagonisti di questa novella Adorazione post-contemporanea messa in scena dall’artista di origine spagnola Felipe Cardeña.

Il titolo di questo singolare progetto realizzato da Cardeña per il Natale 2020 è Adorazione del Monolite. Un Natale, avverte l’artista, in cui il mondo intero ci è apparso quantomai scosso, incerto, spaventato e insicuro del proprio futuro più di quanto non fosse mai accaduto nei decenni precedenti. Eppure, ci dice sempre Cardeña, l’intera società sembra anche preda di una totale incapacità di elevazione spirituale, di riscoperta di alcun senso del Sacro che non sia meramente superficiale, passeggero, spettacolare, quando non mistificato da altri scopi assai poco nobili (commerciali, consumistici, normativi, repressivi, etc.).

The adoration of the Monolith #6
(d’après Giotto, Adoration of the Magi and Lamentation over the Dead Christ, Cappella degli Scrovegni, Padova)
The adoration of the Monolith #2
(d’après Cesare da Sesto, Adorazione dei Magi, Museo di Capodimonte, Naples)

Ecco allora che i Re Magi, nei capolavori quattrocenteschi rivisitati à la manière de Cardeña, non appaiono più i portatori della “buona novella” della nascita del Salvatore, ma uomini come tanti, fragili e dubbiosi, sorpresi e affascinati, come antichi selvaggi, dalla visione della propria immagine riflessa sulla superficie stessa del monolite.

Non è dunque il volto e il corpo di un bambino prodigioso e divino, fattosi uomo per salvare l’intera umanità, ma l’immagine tremolante e incerta del proprio volto riflesso sulla superficie specchiante del Monolite, a stupire e commuovere i Magi in questa strana e sottilmente angosciante Adorazione contemporanea.

The adoration of the Monolith #4
(d’après Albrecht Dürer, Adoration of the Magi, Gallerie degli Uffizi, Florence; Lamentation of Christ – ‘The Glim Lamentation’, Alte Pinakothek of Munich, Germany)
The adoration of the Monolith #3
(d’après Filippo Lippi & Beato Angelico, Adorazione dei Magi or “Tondo Cook”, The National Gallery of Art, Washington D.C.)

Sono loro stessi, dunque, i veri protagonisti dei quadri: i  Magi, intrappolati, come il bambino nei primi anni di vita, in un’eterna e drammatica “fase dello specchio” (fase teorizzata da Jacques Lacan nel 1936, come primo nucleo dell’individuazione dell’io nell’infante, prodromo a una possibile, successiva nevrosi di tipo narcisistico), di fronte al quale essi stessi scoprono per la prima volta la potenza, e insieme la dimensione profondamente alienante, del riconoscimento della propria immagine riflessa.

The adoration of the Monolith #9
(d’après Leonardo Da Vinci, Adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi, Firenze)

I Magi, come il bambino lacaniano, che guardandosi allo specchio di fronte al quale lo pone la madre vive quella  “lacerazione originale” data dalla consapevolezza della visione del proprio volto come altro-da-sé, sembrano per la prima volta concepire il mondo attraverso la dimensione “miracolosa” del proprio volto e del proprio corpo separati dalla dimensione più autentica del sé, e al contempo anche dalla sua proiezione ideale. Come Narciso, che nel rimirare la sua immagine riflessa nell’acqua se ne innamora perdutamente, tanto da gettarsi nel fiume per cercare di raggiungerla, così il bambino lacaniano è travolto da una sorta di innamoramento per quella figura unitaria appena scoperta sulla superficie dello specchio, destinata però a rimanere soltanto un miraggio, una ‘identità alienante’ cui non potrà mai realmente avere accesso. Anche i Magi, come il bambino lacaniano, scoprono insieme la gioia e la frustrazione di non poter riunire in un’unica realtà i due volti che lo specchio restituisce loro: quello individuale, appartenente al singolo, e quello pubblico, adeguatamente inserito nella compagine sociale.

The adoration of the Monolith #10 (d’après Paolo Veronese, Adorazione dei Magi, National Gallery, London)

Sono loro, dunque, i Magi, a immagine del bambino lacaniano, a vestire i panni dell’uomo tecnologico contemporaneo: quell’uomo frustrato, incerto, confuso, innamorato del proprio volto pubblico e della propria immagine sociale, rimandata ogni giorno dallo specchio deforme dei social network, perfetto e stupido, o perfettamente stupido, come un eterno Narciso, egocentrico, autoreferenziale, strutturalmente incapace di qualsivoglia elevazione spirituale, di qualsiasi aspirazione o progettualità che esuli dal debole specchio del presente.

Morta, o moribonda, ogni forma di sacralità, di ricerca di senso ultimo del vivere, sparito ogni reale discorso programmatico a lungo termine, l’unico conforto lasciato all’individuo del 2020 è infatti unicamente la possibilità di specchiarsi in sé stesso, o meglio nel proprio riflesso sociale, offerto quotidianamente dallo specchio falsato dei social nerwork.

The adoration of the Monolith #7
(d’après Pietro Perugino, The Adoration of the Magi, Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia)

Ecco allora che il Monolite, questo oggetto asettico e misterioso, che sostituisce, con il suo aspetto neutro e levigato, l’immagine tradizionale del Bambin Gesù, viene stranamente ad assumere un doppio significato: da una parte è la metafora perfetta della difficoltà dell’uomo contemporaneo nel relazionarsi con il tema del sacro, ormai andato per sempre perduto nelle immagini e nelle narrazioni sacre tradizionali, ed echeggiante invece nelle mille forme assunte dalla tecnologia, quasi che l’unica venerazione possibile, oggi, fosse riservata ai giocattoli e ai fetticci tecnologici: tv, telefoni, automobili, computer, etc.

Dall’altra, proprio quella funzione riflettente dello stesso Monolite, grazie alla quale i Re Magi ritrovano, sorpresi, la propria immagine riflessa sulla sua stessa superficie, diventa essa stessa metafora di quel profondo senso di frustrazione e di alienazione vissuto dal’uomo-bambino degli anni Duemila, stordito anche di fronte a quell’auto-verenazione divenuta col tempo l’unica forma di religiosità tollerrata e consentita nella società a capitalismo avanzato. Non più idoli da venerare, non più chiese nelle quali svolgere i riti: solo la (s)confortante immagine di se stessi che, nell’assenza di narrazioni sacre in cui credere, diventa essa stessa icona, simulacro, feticcio a cui aggrapparsi disperatamente.

Felipe Cardeña,  Adorazione del Monolite.