intervista di Alberto Fiz a Emilio Isgrò
Nel 1964 è nata la cancellatura. Quali sono state le ragioni che ti hanno condotto a un gesto così evrsivo?
L’idea che l’arte non fosse un oggetto da appendere al muro o da presentare su una base, ma, piuttosto, uno strumento di discussione e di crescita. Per me equivaleva, allora come oggi, a un processo formativo che consentiva la circolazione di nuove idee. All’inizio degli anni Sessanta facevo il giornalista al ‘Gazzettino’ di Venezia, dove mi occupavo di cultura, in particolare della terza pagina. Una volta, correggendo un articolo, mi sono improvvisamente accorto che le cancellature avevano più forza delle parole. È stata per me una rivelazione, e da quel momento ho intrapreso un’operazione radicale, destinata a sconvolgere le regole del sistema, tanto che conia slogan estremisti, come ‘La parola è morta’, che fecero molto scalpore. Era evidentemente un’esagerazione, ma descriveva bene il mio stato d’animo e il desiderio di reagire al pieno di parole che aveva fatto la cultura occidentale. Nel campo dell’arte, poi, il corrispondente delle parola era l’immagine di consumo, che con la Pop Art aveva preso il sopravvento, diventando troppo ingombrante.
Piuttosto curioso che una critica risoluta alla parola arrivasse da parte di chi, come te, frequentava le avanguardie letterarie e si era formato con la poesia pubblicando da Schwarz una raccolta apprezzata comeFiere del Sud.
La mia presa di posizione, a ben vedere, consentì alla parola di rafforzarsi e di recuperare un’energia che si era andata affievolendo. ‘La parola è morta’ rappresentava il punto da cui bisognava ripartire. La mia attività di poeta, dunque, non era affatto in contraddizione con quella del cancellatore. Direi che la prima era la premessa delle seconda. Dalla letteratura di nicchia passavo a un’azione che interferisce con l’intero sistema della comunicazione.
Ma non la pensavano così i poeti.
In effetti, la cancellatura scosse profondamente il mondo letterario, e non tutti la presero bene. A rifiutarla senza esitazioni ci fu Eugenio Montale, che apprezzava la mia attività di poeta. Con lui si dra creato un rapporto di amicizia, e spesso veniva alla redazione del ‘Gazzettino’, da dove partivamo per fare lunghe passeggiate tra le calli di Venezia. Quando gli mostrai la cancellatura, fu molto contrariato, e da allora non ci siamo più frequentati. Più disponibile Pier Paolo Pasolini, che per altro aveva recensito favorevolmente Fiere del Sud, ma forse non aveva compreso fino in fondo le cancellature, pur essendone in qualche modo suggestionato. Lui diceva alla nostra comune amica Elsa De Giorgi che non le approvava, ma che Isgrò se le poteva permettere. Chi non ebbe perplessità, invece, fu il mio amico Andrea Zanzotto. […] A conti fatti, tuttavia, potrei affermare che l’ambiente dell’arte aveva recepito la cancellatura meglio del mondo editoriale […]
In fondo, tu sei sempre stato un solitario e della cancellatura non sei stato solo il creatore e il teorico, ma il presidente e l’amministratore unico di Cancellatura s.p.a., un centro del pensiero creativo che non poteva fare altri proseliti…
La cancellatura è un percorso individuale e per certi versi solitario i cui risultati conducono a una scissione irrimediabile, anche sotto il profilo teorico, rispetto alle avanguardie. Si tratta di un gesto assoluto, senza ritorno, lontano dal nichilismo dadaista. Con le parole di Joseph Schumpeter [economista austriaco di inizio secolo, ndr], potrei dire che la cancellatura rappresenta una forma di distruzione creativa.
Puoi chiarire questo aspetto?
Il gesto è assoluto, ma l’azione non ha nulla di dogmatico. Si pone, anzi, in chiave dialettica e relazionale. La cancellatura è il mattone che serve alla costruzione, o, meglio ancora, lo zero in matematica, chiamato a formare tutti i numeri e tutti i valori. Rispetto a un sistema gerarchico e verticistico come quello imposto dalle avanguardie, la cancellatura rappresenta un’ipotesi linguistica fortemente innovativa. Non è un gesto come gli altri, ma è la messa in discussione del proprio gesto in base a un’operazione dove l’artista stesso cancella il proprio io ipertrofico. Le avanguardie avevano la necessità di trovare un nemico da combattere, un movimento estetico o politico a cui contrapporsi. Io non ho il problema di uccidere il padre, e la cancellatura si sviluppa come azione catartica che non cerca lo scontro con i princìpi sociali, ma ne mina le fondamenta, liberando lo spettatore da una posizione passiva di pura contemplazione.
Ma da Malevich a Twombly, da Schwitters a Rotella, la cancellatura, sia pure in nuce, è un tema ben noto nell’arte del ‘900. Per quale ragione hai scelto di farne l’aspetto centrale della tua ricerca?
Anche le mele che cadono dagli alberi erano ben note al tempo di Newton. Solo che se n’è accorto soltanto Newton. Io, purtroppo per me, non sono certamente Newton, e questo ferisce non poco il mio amor proprio.
D’altra parte una tale frustrazione non mi ha impedito di capire immediatamente che la cancellatura è una specie di buco nero attorno al quale gravita l’universo delle parole e la comunicazione umana in genere. E quanto agli artisti che tu citi, sì, è vero, cancellavano anche loro, ma non se ne erano neanche accorti… perché cancellavano funzionalmente, in stato di necessità, magari per correggere i loro errori di disegno o di prospettiva, senza rendersi minimamente conto del potenziale creativo che avevano in mano. Anche El Greco cancellava il cielo, riempiendolo di angeli, putti e cherubini focomelici. Senza contare Mondrian, che sarebbe arrivato all’astrazione assoluta cancellando le foglie di un albero. Nel mio caso, invece, questa ipotesi si ribalta, e il vero soggetto è proprio la negazione come premessa indispensabile dell’affermazione. Ciò che sembrava impossibile, diventa possibile, con tutta la sua carica di ambiguità. Posso ribadire quanto avevo affermato una ventina d’anni fa: ‘la mano che cancella è la sola che può scrivere il vero e il falso insieme’”.
Non si rischia, dunque, di passare dal nichilismo delle avanguardie al qualunquismo della cancellatura?
Questa eventualità non si manifesta perché la cancellatura a volte finge di essere neutra, ma a volte prende posizione, in quanto interrompe il flusso della comunicazione, modificandone l’orientamento in maniera imprevedibile. Evita ogni forma di tabù o di simbologia, ponendosi alla giusta distanza sia dal passato sia dal presente, senza alcuna preclusione. Forse per questo è stata particolarmente apprezzata dal postmoderno […]
Perché hai deciso di cancellare la parola e non l’immagine?
Probabilmente ha influito il mio passato di poeta. In un’epoca ad alto tasso ideologico, poi, intervenire sulla parola era un’azione assai più corrosiva. In passato, il gesto più estremo lo aveva compiuto Mallarmé, proponendo la pagina bianca come ultima, suprema possibilità di poesia […]
Così nel 1964 cominci a cancellare gli articoli di giornale, per poi passare alle opere di pensiero, tanto che nel 1970 sferri un attacco a un monumento della cultura e in occasione di un’importante esposizione da Schwarz presenti l’Enciclopedia Treccani cancellata.
Quella fu un’operazione che creò molte polemiche, in quanto colpiva uno dei pilastri dell’identità italiana. Non era certo un gesto contro la cultura, ma l’occasione per ripensarla in termini rinnovati […]
La cancellatura non corre il rischio di rimanere un gesto bloccato, incapace di rinnovarsi?
Assolutamente no. Al contrario di altri segni legati alle neoavanguardie, la cancellatura non è mai asettica o statica, ma è relazionale. Essa ha la capacità di assorbire il contesto modificandosi continuamente. Se cancelli il diavolo è diabolica, se cancelli Dio è divina. In questo modo potrei arrivare alla Giocondao al Giudizio universale.
Insomma, un delirio di onnipotenza.
Una metodologia che mi consente di agire prendendomi carico del soggetto, e questo modifica radicalmente la percezione del segno, evitando ogni forma di retorica.
Qual è la differenza tra cancellare l’Enciclopedia Treccani o la Costituzione, due eventi realizzati a quarant’anni di distanza, il primo nel 1970, il secondo nel 2010?
Prima ho cancellato un monumento della cultura; poi il patto sociale di un popolo in pericolo. La cancellatura, dunque, si pone sempre come soluzione di un problema. Quando cancello rimangono le tracce e non più le premesse da cui sono partito, ovvero il problema. La cancellatura non è semplicemente una negazione, ma ha la capacità di rivitalizzare il contesto e, come ha scritto con lungimiranza molti anni fa il poeta-psicanalista Basilio Reale, è ‘una terapia d’appoggio’ alla parola.
Come dire una cura omeopatica, un massaggio cardiaco di fronte al cicaleccio televisivo, alla bulimia di un linguaggio stereotipato, a slogan da rottamare, a tormentoni tipo ‘puntare sulla crescita’ o ‘ce lo chiede l’Europa’. Ma non avevi dichiarato che la parola è morta?
Appunto, è morta e va resuscitata attraverso la cancellatura. Nous voulons effacer, nous voulons rêver. Noi vogliamo cancellare, noi vogliamo sognare. Sono queste le sole parole che ho salvato dalla cancellazione del Manifesto del Futurismoda me realizzata nel 2012 per il Mart di Rovereto.
L’intervista qui riportata per gentile concessione dell’editore è tratta dal volume: Emilio Isgrò, Come difendersi dall’arte e dalla pioggia, Maretti Editore, 2013, pagg.266, euro 22,00.