È una vera e propria apologia di un genere – quello della natura morta – la mostra a quattro mani che la galleria milanese Salamon&C. arte contemporanea ha dedicato (ottobre 2013) a due artisti tra loro diversissimi nella tecnica utilizzata, ma accomunati dalla stessa passione per la pittura classica, per l’estetica barocca e per uno tra i generi oggi meno frequentati dagli artisti contemporanei, quasi sempre troppo timorosi di passare per passatisti o per ingenui nostalgici per tornare a praticarlo. Ma Gianluca Corona e Paola Nizzoli non sono né nostalgici né passatisti.
Pittore classicissimo dal punto di vista tecnico, ma dalla sensibilità fortemente contemporanea, il primo, ceroplasta maniacalmente innamorata delle tecniche antiche e frequentatrice di archivi, biblioteche e gabinetti scientifici (oltre che fruttivendoli d’ogni sorta e tipo) la seconda, i due, insieme, formano una strana coppia, che solo l’intuizione intelligente e suo modo geniale di una gallerista fuori dagli schemi e dalle mode come Lorenza Salamon, antiquaria amante e sostenitrice anche della buona pittura e scultura contemporanee, ha saputo unire in un unico progetto coerente. Tanto coerente da sembrare quasi nato non per caso, ma per necessità profonda dei due artisti.

Gianluca Corona lavora, da sempre, quasi esclusivamente sul genere della natura morta (salvo sporadiche incursioni nel campo del ritratto, e altre, ancora più sporadiche, in quello del nudo femminile), con un atteggiamento profondamente anti-concettuale: senza, cioè, quel processo postmoderno di forzata imitazione (e citazione) della classicità, che ha segnato la stagione dell’Anacronismo. C’è, piuttosto, una ripresa di tecniche classiche innestate su una sensibilità fortemente contemporanea. Le nature morte di Corona sono infatti al tempo stesso contemporanee nella sensibilità, nello sguardo, nel punto di vista e nella luce, e fondamentalmente classiche nella composizione e nella tecnica pittorica.
La preparazione della tavola o della tela, il chiaroscuro, la composizione del quadro e persino il disegno di Corona sono quelli della migliore tradizione quattro e cinquecentesca; la pittura è sapiente e meticolosa, precisa fino all’esasperazione senza mai farsi mera mimesi fotografica del reale, attenta e coltissima nella serie di rimandi alla tradizione classica (da quella secentesca delle “nature immobili” – le straordinarie still-leven di scuola fiamminga -, fino al naturalismo lombardo) e tuttavia permeata di una luce, di una particolare epicità e di una sua carica drammatica che li rende fatalmente e ineluttabilmente contemporanei, permeati di una luce moderna come quella di uno still life fotografico.
Non c’è mai, nelle nature morte dell’artista, la volontà di spostare il discorso verso l’uno o l’altro dei due piani temporali: non ci sono oggetti volutamente moderni o attrezzi “civili”, tipici dell’oggi, né tantomeno oggetti “marcati” di matrice pop, da tranquilla e domestica quotidianità delle cucine o dei salotti dei nostri giorni (come invece, forse, saremmo portati ad aspettarci), così come non c’è, dal lato opposto, il tentativo di “retrodatare” i soggetti dei quadri con trucchi che ne possano spostare la collocazione temporale in un’indefinita epoca classica. “Da tempo”, dice l’artista, “sentivo l’esigenza di trovare un approccio al soggetto che fosse più contemporaneo. Qualcuno mi ha anche suggerito di inserire oggetti moderni all’interno della natura morta, ma è un’operazione che non mi è mai interessata. Così ho preferito invece giocare sulla luce, levando oscurità al fondo, di modo che il soggetto non uscisse più da un fondo scuro, caravaggesco, ma da uno più cristallino, più moderno, restando, però, la composizione classica”.
Quella di Corona è una pittura caratterizzata, in particolare, da una straordinaria e maniacale verosimiglianza nella riproduzione delle rughe, delle gibbosità, dei calli e dei difetti della cute dei diversi frutti, al punto da far pensare, per metafora, alla sua ricerca come a uno dei tanti lavori sorti intorno all’idea del corpo, nell’epoca della sua massima distorsione e della sua massima celebrazione. Laddove, cioè, lo statuto stesso del corpo umano è stato più volte messo in discussione, il lavoro per così dire parallelo di Corona intorno all’epidermide dei frutti pare una curiosa metafora della nostra ossessione per il corpo, per il lifting, per l’impossibile mantenimento della giovinezza della pelle, e, per metonimia, della nostra stessa identità.

Paola Nizzoli, bergamasca trapiantata a Genova da oltre quarant’anni, dal canto suo ricrea nature morte con la cera, attraverso un processo antichissimo, che risale all’epoca romana: quello della ceroplastica. Una tradizione che ha radici antiche, ma che nell’arte con la “a” maiuscola non aveva mai avuto cittadinanza: in epoca rinascimentale era utilizzata dagli scultori come modello delle sculture da mostrare al committente; nel seicento comincia a essere utlizzata come metodo di classificazione scientifica per il corpo umano, e solo dal 1700 per la pomologia artificiale, cioè per la riproduzione, a scopo scientifico, della frutta e della verdura. Metodo che oggi Paola Nizzoli ha ripreso, proprio ricorrendo agli antichi ricettari.
“Ho scandagliato archivi, biblioteche e università, studiato libri e antichi trattati per ritrovare le ricette per le cere, che devono essere diverse per ogni frutto di cui voglio fare il calco”, racconta l’artista. “Utilizzo più di 40 cere diverse, che provengono dagli apicultori di tutto il mondo. Ogni frutto ha caratteristiche particolari, e a seconda della grandezza, della morbidezza, della consistenza che voglio ottenere, devo utilizzare impasti di cere differenti, dei quali prendo nota meticolosamente. Da quando ho iniziato a lavorare con le cere, quasi 10 anni fa, ho fatto oltre 450 ricette differenti per altrettanti frutti”.
Paola Nizzoli ricrea dapprima le nature morte con frutti veri, per studiare la composizione che vuole ottenere (“Ormai i fruttivendoli mi conoscono tutti, non solo a Genova, dove abito, ma ovunque in Italia, e non solo; a volte mi arrivano frutti rari e strani da tutto il mondo, di recente mi sono arrivate ad esempio delle mandorle dall’Afghanistan. Quando mi vedono arrivare, i fruttivendoli mi chiedono: è da mangiare o da riprodurre?”). Quindi procede col calco e con lo studio della ricetta per la cera più adatta al tipo di frutto che intende riprodurre (“per gli agrumi utilizzo 5 cere diverse, per l’uva invece ne bastano solo due”). Infine, c’è prima il lavoro di finitura, di modellatura e di pulitura del frutto finito, e poi quello di pittura: i frutti sono infatti dipinti a mano, con pigmenti naturali. Un lavoro meticoloso e certosino, al limite del maniacale. “Sì. E infatti ho capito perché, dal 1910 a oggi, l’unica pazza rimasta a farlo sono io”.

Ma come si sente Paola Nizzoli nel mondo dell’arte contemporanea, dove un lavoro come il suo appare fatalmente in controtendenza rispetto al prevalere dell’idea sulla fase manuale, che di solito viene lasciata ad artigiani specializzati che lavorano in vece, e su indicazione, dell’artista. “Non mi pongo il problema”, dice la Nizzoli. “Io faccio ciò che mi piace, e che mi dà soddisfazione. E trovo che i miei lavori non starebbero affatto male di fianco ad opere più concettuali o dichiatamente d’avanguardia”.
Sì, forse la chiave di lettura dei lavori di Paola Nizzoli, è proprio questa: nella grande, straordinaria perizia artigianale, nella mimesi perfetta del reale con gli strumenti antichi della ceroplastica, si nasconde una spinta più dirompente di molti, deboli esercizi concettuali di oggi. Allo stesso modo in cui il grandissimo talento pittorico di Gianluca Corona è davvero più ricco di riferimenti, di rimandi e di implicazioni intellettuali di molti stanchi esercizi postduchampiani di oggi.
Alessandro Riva
12 – 21 novembre 2013
Milano | Via San Damiano 2
Tel 02 7601 3142