Elena Trailina. Affreschi e icone contemporanee come specchio del mondo

Elena Trailina lavora da anni con la tecnica della punzonatura su foglia d’oro. La sua è stata una ripresa, consapevole e fortemente motivata concettualmente, di una pratica che appartiene alla tradizione russa delle icone religiose – la decorazione su foglia d’oro, ottenuta attraverso l’antica tecnica della “punzonatura”, rintracciabile nelle aureole dei santi e nei fondi oro delle stesse icone –, trasformando così la manifesta inattualità di questo procedimento in motivo di orgogliosa riappropriazione delle proprie radici identitarie e culturali. Nata a Mosca ma formatasi artisticamente in Italia, infatti, Trailina ha voluto rivendicare il proprio background identitario come elemento di differenza rispetto alla superficialità omologante dello star system internazionale, che appiattisce ogni differenza mescolando in un linguaggio comune, volutamente basso e banalizzante, gli idiomi e i dialetti, intesi nel senso più ampio del termine (stilistici, tecnici, intellettuali) provenienti dalle varie tradizioni geografiche locali.

Ma Trailina, in realtà, avverte di non aver “imparato” la tecnica della punzonatura in Russia, bensì in Italia, e precisamente a Firenze, studiando, e guardando, e in certi casi copiando, le tavole dei primitivi italiani del Tre e Quattrocento italiano. Così come imparerà, studiando dal vero e copiando, in ore e ore di lavoro solitario in studio, la tecnica del “buon fresco” copiando pedissequamente gli affreschi del Beato Angelico.

Ma il punto è che, sia che si tratti di riappropriazione della tradizione russa, con la ripresa della foglia d’oro e della punzonatura che, oltre che dei primitivi italiani, sono comunque caratteristiche peculiari anche della cultura iconografica russa ortodossa; sia che si tratti di riproposizione, in termini del tutto contemporanei, di pratiche e tecniche tipiche della tradizione del primitivismo pittorico italiano, è un fatto che Elena Trailina sia così riuscita, con un doppio salto mortale, a sganciarsi e a differenziarsi rispetto a un mercato e a un sistema internazionali dove (per dirla con Hegel) “tutte le vacche sono bigie” – dove, cioè, un’installazione o una fotografia possono essere state realizzate indifferentemente a Pietroburgo come a Roma o a Londra, senza che nulla ne denunci – stilisticamente o formalmente – la propria appartenenza a questa o a quella scuola nazionale. Quello messo in atto da Elena Trailina è dunque, prima di tutto, un atto di orgoglio, un’affermazione di diversità e di autonomia, una fiera rivendicazione del proprio essere volutamente e dichiaratamente “inattuale”.

Ma l’inattualità di Elena Trailina è, come vedremo, del tutto apparente. Non c’è, infatti, alcuna “inattualità” nell’invenzione formale delle sue strane e misteriose silhouettes, che mescolano, come in un grande frullatore concettuale e visivo, la nostra vocazione pop diffusa e la cultura artistica italiana più pura, i riferimenti, più o meno consci, alla fotografia e al cinema, e all’immaginario che da questo deriva, con la sua capacità di emozionarci con scorci dei più famosi skyline urbani contemporanei, fatti solo di contrasti, di luci, di palazzi-fantasma i cui contorni sono punteggiati dalle luci che essi stessi emanano, e le tecniche pittoriche più antiche e tradizionali, come, appunto, la foglia d’oro e la decorazione a punzone; e, ancora, il gioco di montaggio che risente molto della cultura del taglia-e-incolla digitale, applicato però su tecniche arcaiche, con solo sporadiche incursioni nella tecnologia più avanzata del contemporaneo (come gli smalti e vernici per auto o le incisioni su designglass).

Così come non c’è nulla di inattuale, a guardar bene, nessuna concessione a un gusto rétrò, tipico del primo postmoderno, né all’amore per la citazione e al recupero fine a se stesso delle tecniche antiche, nei lavori eseguiti con la tecnica del “buon fresco”. Non è infatti tanto, o non solo, la tecnica in sé, che Elena Trailina rivendica di aver rispolverato, inserendola di diritto nell’ambito dell’arte contemporanea, dopo che nessuno più ha avuto il coraggio di affrontarla con continuità e con coerenza ad oltre cinquecento anni dal Rinascimento, a sorprenderci e a catturare la nostra attenzione. È proprio nel mix, sorprendentemente popular, senza mai che l’artista arrivi a strizzare l’occhio ai colori o alle suggestioni classiche del pop, oggi troppo spesso banalizzato e ridotto a barzelletta degna dei troppi artisti spuntati dall’oggi al domani sulla scena, di suggestioni arcaiche e contemporanee; di quel mix di antico, di solenne, di aulico, fornito dall’uso di tecniche come l’affresco da una parte, e i fondi oro dall’altra, che spuntano a decorare qua e là il fregio d’una porta, lo skyline di una città in lontananza, o, incongruamente, persino la divisa d’ordinanza di un vigile urbano issato sul suo trespolo come l’idolo d’una moderna divinità urbana, e di quotidiano, di profano, di pedestremente temporale, rappresentato dai mille particolari che si stagliano, con forza e semplicità, qua e là sulla tavola – un cartello stradale, ridotto a puro ed elementare segno grafico, un gruppo di pale eoliche, ritte sulla cima di un monte, venute a sostituire, nell’eclissi di spiritualità dell’epoca moderna, le tre croci caratterizzanti il paesaggio sul Golgota, la silhouette fortemente iconica di una gruppo di donne chiuse nel chador, o quella, altrettanto simbolica nella sua eleganza e forza compositiva, di un gruppo di monaci tibetani fermi a un passaggio a livello.

C’è, soprattutto, alla base di queste bizzarre silhouettes, degli affreschi, degli straordinari, modernissimi oranta(sorta di divinità contemporanee, stagliantesi in mezzo agli skyline delle grandi metropoli di oggi, a portare, come la Madonna orante delle chiese ortodosse, la protezione di una divinità ormai a rischio di sparizione la protezione sulle nostre povere teste), c’è, dicevamo, alla base di tutte queste figure stilizzate, la nostra propensione a trasformare tutto in immagine, in semplice forma astratta, priva di profondità e di sostanza, da manifesto pubblicitario stradale o da schermo digitale.

Vengono in mente, a questo proposito, le parole utilizzate dal più grande teorico della sostituzione del reale con la sua immagine riflessa, Jean Baudrillard, quando avvertiva del rischio di perdersi in una sorta di schizofrenia della trasparenza, per l’eccesso e la sovrabbondanza di immagini, e per la loro pervasività nella vita quotidiana dell’uomo di oggi; nel loro diventare, piano piano, oggetti sostituivi di quel reale che un tempo non avevano il compito che di rappresentare: “una prossimità troppo grande di tutto, una promiscuità infetta di qualsiasi cosa, che lo investe e lo penetra senza nessuna trasparenza, senza che nessun alone, nessuna aura, neppure quella del proprio corpo, lo proteggano”. “Ciò che lo caratterizza”, scrive Baudrillard, “non è tanto la perdita del reale, come si dice abitualmente, quanto questa prossimità assoluta e questa istantaneità totale delle cose, questa sovraesposizione alla trasparenza del mondo. Spogliato da qualsiasi scena e attraversato senza ostacoli, non può più produrre i limiti del suo essere proprio, non si può più produrre come specchio. Diventa puro schermo, pura superficie di assorbimento e di riassorbimento delle reti di influenza”. È forse proprio questa la chiave più appropriata per leggere questa riduzione, da parte dell’artista, anche delle immagini provenienti dal serbatoio della grande storia dell’arte italiana (da Piero della Francesca a Giovanni Bellini al Mantegna) a puro fondale privo di spessore, sagoma sfondata su cui riflettere, a nostra volta, come in uno specchio rovesciato, l’impalpabile simulacro dei nostri sogni, delle nostre emozioni, dei nostri miti di uomini e donne del XXI secolo – magistralmente rappresentati, anziché dal nostro volto riflesso, o, viceversa, da quello del personaggio cui apparteneva la sagoma originaria (si tratti del Duca di Urbino ritratto da Piero della Francesca, o dal Doge Leonardo Loredan ritratto da Giovanni Bellini, o della giovane dama dipinta da Domenico Veneziano), dal panorama fortemente stilizzato delle più celebri metropoli del mondo: quelle città ridotte, a loro volta, a puro simulacro privo di vita reale, contenitori, loro malgrado già standardizzati, di emozioni preconfezionate per il turismo di massa, armato di tablet e di smartphone d’ordinanza con cui riprendere ogni dettaglio, ogni particolare, ogni angolo di queste megalopoli non più atte a essere vissute realmente, ma virtualmente: da guardare, fotografare e poi sbattere subito su facebook o sugli altri social network in fremente attesa della nostra ultima foto o del nostro ultimo post; città ridotte a essere ricevute nient’altro che come uno spettacolo (virtuale) nello spettacolo delle nostre vite, eterne Disneyland pronte ad accogliere la finzione di un quotidiano dove, per dirla con le parole dell’antropologo Marc Augè, “lo spazio iniziale dello spettacolo si disperde nel nonluogo delle sue molteplici riproduzioni”.

Ecco allora che Elena Trailina ci riconcilia, senza per questo avvertire la necessità di trasformare tutto in boutade, in barzelletta, o in sberleffo (come oggi molta arte contemporanea è portata naturalmente a fare), con la grande tradizione iconografica classica e col bagaglio visivo che, volenti o nolenti, ci portiamo dentro da sempre, tornato per una volta a tradursi in icona, sì, ma nell’accezione più contemporanea del termine: senza dunque che delle icone, nel senso originario della parola, rimanga più che il vago ricordo: il loro simulacro, appunto, ridotto a semplice silhouette. Magistralmente rappresentato, questo vago ricordo, da quella linea astratta, stilizzata, del contorno della figura, che, a voler ben guardare, non è altro che la riproposizione, ma rovesciata, del contorno netto da cui sono incorniciate le figure delle antiche icone bizantine; singolare procedimento di ribaltamento, concettuale prima ancora che visivo. Dal momento che, mentre nelle antiche icone russe e bizantine il fondo oro, simbolo di spiritualità, di atemporalità, utile ad elevare le figure dei santi ad entità irraggiungibili, era ritagliato al di fuori dello scrigno all’interno del quale era dipinta l’icona, nel caso delle silhouettesdi Elena Trailina, il fondo oro è invece trasportato, paradossalmente, dentro la stessa figura, nelle sagome dei palazzi che vi si stagliano all’interno, quasi che l’unica atemporalità possibile, oggi, sia rintracciabile negli skyline, insieme concreti e terribilmente astratti, delle nostre megalopoli: simboli plastici della potenza e magnificenza, e allo stesso tempo dell’inconsistenza, della cultura che abbiamo costruito anno dopo anno in Occidente, priva di idoli, santi, o dèi cui far riferimento, se non lo stesso sfavillio dei suoi palazzi e dei suoi grattacieli: buono, come le pietruzze colorate per i selvaggi, ad incantare e a sorprendere il turista di turno, ma anche voi, e io che scrivo, e l’artista – e tutti noi, in fondo, moderni selvaggi divisi nelle mille tribù del contemporaneo avanzato.

Alessandro Riva

(english text here)

Elena Trailina | Silhouettes

curated by Alessandro Riva

7 agosto – 30 agosto 2015
Triumph Gallery, Moscow
3/8, Ilyinka Street, building 5
+7 495 162 0893