di Rebecca Delmenico
Brescia, interno giorno. È mattina. Appena varcata la soglia dello studio, la prima canzone che si diffonde dallo stereo è “Goodbye Horses” di Q. Lazzarus, più famosa per far parte della colonna sonora de “Il silenzio degli innocenti”: l’impressione è talmente forte che, tra la traccia sonora e l’atmosfera che si sprigiona dalla tana dell’artista – tra manichini, peluche polverosi, arnesi disparati, oggetti sparsi ovunque assieme alle opere ben disposte, ma che colpiscono dritto come un pugno nello stomaco –, per un momento mi sono sentita una novella Clarisse (alias Jodie Foster, nel film) finita nella tana di Buffalo Bill, lo spietato serial killer che Hannibal Lecter contribuirà a far catturare.
Macchè! In realtà Dorothy è una persona adorabile, molto dolce, disponibile ma convintissimo della ricerca che porta avanti da tempo, spesso in collaborazione con altri artisti o facendo “entrare” altri artisti nei suoi lavori: molti artisti noti sono infatti passati di qua, dal suo studio, per essere ritratti da Dorothy nel suo stile unico, mentre con tantissimi altri ha stretto importanti collaborazioni (tra l’altro, prossimamente l’artista modificherà il mitico copricapo dei DEVO, celeberrima band americana).
Una volta ambientatami nel suo studio, e fatta passare la prima impressione di inquietudine da film horror, comincio a fare alcune domande all’artista. La prima riguarda proprio il motivo di questo nome, “Dorothy Bhawl”, su cui mi ero fatta mille fantasie. Lui chiarisce subito che “il nome è composto dall’unione di 12 lettere che sono le iniziali di persone a me care, rimescolate a formare un nomignolo gradevole, femminile. Dorothy Bhawl insomma non è che un acronimo, un anagramma”. Primo mistero svelato, dunque, all’insegna dell’amore per le persone che gli sono care.
Del resto, le parole che sentirò pronunciare più spesso in questo studio saranno proprio “magia” e “amore”, che sono i sentimenti che muovono l’animo dell’artista e che egli stesso cerca di trasmettere alle persone che interagiscono con lui in qualità di protagonisti degli scatti. Persone che, quasi sempre, appartengono volutamente a un immaginario che un tempo sarebbe stato definito freak, come il nano, l’uomo cannone, vecchi, ciccioni o persone affette da disabilità. Con ciò Dorothy intende restituire dignità a esseri umani che hanno cuore e cervello e si offrono di partecipare agli scatti, e si mettono in gioco proprio per sottolineare con forza il loro esserci, la loro vitalità e la loro individualità.
Del resto, il suo immaginario è pieno non solo di personaggi strambi al limite del surreale, ma anche di situazioni estreme, paradossali, disturbanti: misteriosi astronauti, palombari decrepiti, strani uomini calvi, e poi malati, suore, lottatori, donne-cavallo, gente obesa, mangiatori di fuoco, madri con il teschio al posto del volto, vittime sacrificali, guerrieri a metà tra fantascienza e medioevo… la sua è un’immaginazione sfrenata e misteriosa, che sembra pescare da un museo degli orrori riposto in qualche angolo riposto della nostra cattiva coscienza, una sorta di “lato oscuro” dell’immaginario collettivo contemporaneo.
Eppure ogni cosa, per Dorothy, ha un’origine precisa, ovvero nasce dall’ispirazione: che, mi spiega l’artista, “è un elemento fisico che ci governa, qualcosa di vero e palpabile e dettato dall’unione di suoni e colori. Tutto viene da lì. Gli uomini hanno sempre guardato le stelle per trarne cosa? Forme, colori e suoni? Non credo. Gli uomini hanno sempre guardato le stelle per avere la loro fede e credere nel proprio divino. La poesia“. Nascono così opere come “El batuismo del sagrado puerco!”, una delle prime opere che ho visto, che mi ha riportato in un clima simile a “Il nome della rosa”, uno scatto dove un uomo sovrappeso seduto su un grosso mastello, con lo sguardo perplesso di chi non capisce bene cosa gli stia accadendo, viene battezzato da un pio pellegrino.
Alcune immagini sono forti, estreme, come un pugno nello stomaco, perché Dorothy è così, vive di sensazioni, stati d’animo, ispirazioni repentine che vengono riportate in forma poetica nella fotografia, che vuole avere lo scopo oltretutto di spingere a un riflessione e rompere schemi mentali. “Fuckfie, l’amore al tempo dei social” vede invece una coppia ripresa nel momento della fellatio, i cui protagonisti sono entrambi intenti a guardare lo smartphone. Il messaggio è lampante, viviamo in un tempo dove tutto è talmente veloce, dove siamo inconsapevoli schiavi di cellulari e vita virtuale da perdere il naturale valore della vita reale. Ogni scatto è unico, ma l’elemento comune è lo sfondo, lo stesso muro macchiato nello studio dell’artista, che è estremamente legato a questo luogo dove “avviene la magia”, come dice lo stesso Dorothy. Il muro con la stessa inconfondibile macchia è un marchio che sigilla l’opera.
Il consumismo sfrenato, la massificazione e l’omologazione, la bulimia di immagini e stimoli indotti, la creazione di falsi miti che si bruciano come fuochi di paglia lasciando un vuoto subito colmato dal successivo idolo studiato da hoc per ingabbiare il cervello che ormai è intossicato, drogato e assuefatto; questi sono alcuni dei temi cari all’artista, che li riporta in opere come “De.A.D”, realizzata in collaborazione con Andy e Francesco De Molfetta, che ritrae un bambino a cavallo della Mucca Milka (opera di De Molfetta) circondato da confezioni coloratissime e fluo (marchio di Andy). Tema è il cibo spazzatura che non solo mangiamo noi adulti, ma che troppo spesso gli stessi genitori propinano anche ai figli. Mi dice Dorothy: “Prima diventiamo parte integrante di società, prima diventiamo consumatori. Chi se ne frega oggigiorno se una ragazzina di 14 anni vuole ancora sognare di essere una principessa, o un ragazzino cavaliere? Perdendo tutti questi valori di sogno e meraviglia, entrano altri falsi miti, rapporti prematuri. Tutto oggi è accessibile e veloce, facendo perdere ogni diritto di curiosità e ricerca. Oggi ci si concentra su cose senza magia….”. Ma la magia si può ancora ritrovare qua, nello studio-antro di questo misterioso cercatore di magie che è Dorothy Bhawl, ragazzo gentile che crede nell’amore e che nelle sue opere rappresenta l’altra faccia del reale.
Rebecca Delmenico