di Rebecca Delmenico.
Presentato in anteprima assoluta al 37 Film Festival di Torino il nuovo lavoro dell’artista visivo e regista Cosimo Terlizzi che incorpora il terzo capitolo di una ricerca decennale per l’autore che, dopo “Folder” e “L’uomo doppio”, torna a interrogarsi sul rapporto tra uomo e natura, con l’obiettivo di riscoprire l’uomo contemporaneo. Un fluire libero e spontaneo di immagini nel quale si innestano le esperienze e le riflessioni dei protagonisti, come le brevi e coinvolgenti frasi che l’autore annota su un diario, accostando mito e fatti quotidiani, come le tragedie dei profughi in mare o l’odio spregiudicato verso altre religioni, come quella musulmana, di particolare attualità a livello mondiale oltre che nazionale.
Un diario in movimento che parte dall’isola di Alicudi, “un posto per pochi iniziati, gente che ama stare con sé stessa. L’equilibrio dell’isola è talmente fragile e miracoloso che ho paura a parlarne o scriverne per il timore che, come in una favola, tutto sparisca all’improvviso” (“A tavola con gli dei”). Terlizzi legge questo estratto per tracciare il ritratto di un luogo impervio, aspro, inospitale, eppure magico: una dimensione in cui trovare pace.
Conosciamo la sofisticata Martina, invitata per alcuni giorni, che, durante il suo soggiorno, nell’esplorare e vivere il territorio, prosegue senza sosta a immortalarsi in selfie per le sue stories su instagram, un po’ prendendosi in giro per dissimulare una sorta di dipendenza da social.
Accompagnati da un giovane del luogo, che cammina a piedi scalzi, quasi mostrando con orgoglio i segni sui piedi martoriati, inizia un dialogo in cui egli mostra un rapporto di odio/amore con la sua terra natia e ammette di non conoscere il mondo dei social, senza trovare una ragione valida per cui, prima fra tutti Martina, debba far sapere agli altri in ogni momento cosa fa e dove si trova. Sul diario l’autore scrive “Come Narciso incantato dal suo riflesso, cade nel torpore dell’anima”.
Salutata l’isola si prosegue in macchina fra i boschi. Vengono sfogliate le pagine di un libro che parla de ‘”l’uomo selvatico” (“un archetipo presente nella cultura popolare di molte aree europee, un essere selvaggio a tratti semidivino, abitante dei boschi e generalmente raffigurato come ricoperto di vegetazione e di una folta peluria”: così in Wikipedia). Incontriamo un nutrito gruppo di uomini col volto dipinto di nero, vestiti di rami di pino, che, brindando, danno vita al rito dionisiaco degli uomini selvaggi. Durante il soggiorno nel bosco, si apre un intenso dialogo con la natura: viene accarezzata una pietra ricoperta di muschio, ci si poggia la testa come se fosse un cuscino, a mani nude si tocca la terra, sul suo diario il regista scrive: “ombra, parte oscura, selva oscura, l’uomo nero, selvaggio, natura selvaggia?”. Addentrandosi nella selva, Terlizzi la definisce una “foresta antropizzata”: gli alberi sono marchiati con la vernice per delineare un ideale percorso per chi voglia farsi un’escursione. Sul diario l’autore scrive “Fuori dal recinto, le tracce della bestia conducono al mio rifugio”.
Dal bosco si passa alla metropoli, all’imponente statua di Teseo che uccide il minotauro che si staglia in tutta la sua veemenza. Cosimo scrive “Teseo ha cercato la bestia nel labirinto e l’ha uccisa”. La città è come il grande labirinto mitologico da cui cercare una via d’uscita. Shangai è un triste monumento dello scempio che l’uomo perpetra verso la terra, tra palazzi che toccano il cielo e campi di immondizia abbandonati tra la cementificazione che ingloba il territorio e l’incuria a cui tutto è lasciato a sé stesso. Di ritorno alla propria terra, durante il tragitto in auto, Cosimo e il marito Damien vanno a far visita a Jacopo, un ragazzo musulmano che in quel mentre sta pregando. Jacopo spiega che nella moschea non ci devono essere immagini, perché potrebbero distogliere dal vero culto, che è quello del fedele e del proprio Signore, che non può essere raffigurato. Nell’affresco del “Giudizio Universale” la mano di Dio e quella di Adamo arrivano a sfiorarsi e l’autore riflette: “Forse è qui l’errore, uomo e dio come entità speculari”.
Una casa ai margini di un paesino pugliese, circondata di ulivi tutto intorno, è il luogo in cui tornare in relazione con la natura che non ha una trama definita, come la vita stessa: risalta nel grande giardino un vigoroso ulivo di almeno quattrocento anni, quasi fosse una creatura antropomorfa con un grande occhio che spicca dalla corteccia. Incontriamo il cane Remo, che, istintivamente, fa da papà al piccolo Tao, un gattino orfano. Il ritorno a una dimensione di amore e affetto a contatto con la terra, dove affondare le mani e tornare in unione con la natura genitrice del mondo. Viene mostrato un video in cui gli appartenenti a popolo primitivo danno vita a un rituale durante il quale, dopo aver scavato un buco a terra, eiaculano dentro pensando all’animale totemico che verrà ucciso: secondo questo popolo la selvaggina è figlia dell’uomo e della terra, che deve essere fecondata prima di uccidere gli animali di cui nutrirsi.
Malam è un ragazzo di colore, un immigrato di religione musulmana, che aiuta nella cura del giardino e della casa, un ragazzo speciale, dolce e molto suggestivo, tant’è che Cosimo ha quasi paura di corromperlo, ma l’amico Saverio, a tal proposito dice “Non essendo Malam un moralista, non lo puoi corrompere”. A testimonianza dell’innocenza e della purezza d’animo del giovane, in un susseguirsi di domande e risposte, egli rimane sorpreso del legame matrimoniale tra Cosimo e Damien, ma la sua è la meraviglia di un bambino che scopre per la prima volta come “tutto è possibile se c’è amore”. Struggente la frase che Malam dedica al regista: “Io ti amo, non è per stare con te, ma io ti amo”. Qui la vita scorre col ritmo della natura, tra il prendersi cura degli ulivi, inserire nuove piante che dialoghino fra loro, la raccolta dei fichi che verranno poi seccati, per arrivare alla comprensione che siamo tutti corpus del grande organismo che è la terra, o meglio, come diceva Spinoza “Deus sive Natura”.
Rebecca Delmenico