Desiderio alla scoperta di Cuba: i miei “diari della motocicletta”

È un film ispirato all’amicizia, all’amore per Cuba e alla moto (una Ural degli anni Cinquanta con sidecar) “Ahora si llego!”, il primo road movie realizzato da Desiderio assieme all’artista cubano José Balboa tra maggio e luglio 2012, presentato in anteprima a L’Avana, nel dicembre 2013, al Festival Internacional del Nuevo Cine Latinoamericano.

Già autore di numerosi cortometraggi (Beauty Hazard, Confabula Spurio, I Love My Queen, Bluesky, presentato alla 54° Biennale di Venezia e They Win On The Sky, presentato all’XI Biennale de L’Avana), Desiderio ha per la prima volta affrontato il “tempo lungo” di un film-documentario per una pellicola che rimescola i tradizionali generi cinematografici: girato con una videocamera a spalla lungo le strade dissestate di Cuba, “Ahora si llego!” è il racconto di un lungo viaggio su una moto, alla scoperta dell’isola attraverso le voci e i volti dei responsabili di piccoli musei e istituzioni dei più sperduti paesi della provincia cubana, quasi si trattasse di trovare il “cuore” culturale e artistico dell’isola. Ispirato al viaggio con la motocicletta che fece il giovane Che Guevara con il suo compagno Alberto Granado, partendo il 4 gennaio 1952 e girovagando per tutta l’America Latina, “Ahora si llego!” è un film ibrido, difficile da descrivere e da raccontare. Ne abbiamo parlato con Desiderio, che in questo articolo racconta i suoi “diari della motocicletta” per le strade di Cuba.

 “Ahora si llego” è difficile da definire: film verità, docufiction, road movie, documentario in senso tradizionale… o film d’artista? Come nasce il progetto e perché?

“Ahora sì llego!” è un mix di generi che passa dal docufiction al road movie, fino al  documentario tradizionale. Dopo diversi anni passati tra Italia e Cuba volevo conoscere l’intera Isola. Adoro L’Avana, ma avevo voglia di vedere di più… e soprattutto volevo farlo unendo un’altra mia passione: la moto. E naturalmente volevo fare questo viaggio in modo non turistico… così come fece il Che per tutta la America Latina, cercando di vivere con la stessa chiave romantica il mio viaggio. Il progetto era quello di scoprire tutte le provincie cubane attraverso le loro istituzioni culturali, parlando con direttori di musei, artisti, conoscere le moltissime attività decentrate…

 Tu nasci come pittore, ma sei anche videoartista, regista… oggi come ti consideri?

 Non mi piacciono le definizioni, sono sempre un po’ limitanti. Il lavoro estetico senza una storia, un riferimento o qualcosa di vissuto non mi attrae. Essere “riconoscibili” a volte si traduce esteticamente in eccesso di ripetitività… La pittura mi attrae, ma ha i suoi limiti. Il mio è un percorso solitario che necessità di alternarsi con il video per sperimentare diversi linguaggi e soprattuttto raccontarsi.

Da diversi anni ti muovi tra l’Italia e L’Avana, e tutti i tuoi film recenti sono in qualche modo un canto d’amore per Cuba. Come nasce questa tua passione per quest’isola?

 Non saprei dire… in Occidente rincorriamo sempre le grandi metropoli, i grandi centri, le comodità di un mondo che corre ma che lascia tutto troppo in superficie. Cuba rappresenta qualcosa che mi ha permesso di conoscere me stesso più a fondo, dove l’aspetto più importante è quello che si desidera fare. Poi se non ci sono pochi mezzi, soldi, infrastutture, tutto questo viene sostituito da un “ingegno” rivoluzionario, quasi a dire che con niente si può fare tutto.

Come interagiscono tra loro la pittura e il lavoro come regista?

Sono due mondi che si amano e si odiano allo stesso tempo. A volte uno rimane indietro e rincorre l’altro o viceversa. Convivono, ma ognuno ha voglia di dominare sull’altro. Io mi trovo sempre nel mezzo… e per ora mi ci trovo benissimo!

In un lungo racconto in prima persona, Desiderio rievoca giorno per giorno la sua avventura cubana in compagnia di un amico a cavallo di una moto. In un articolo in forma di diaro, nato per il mensile specializzato “Mototurismo”.

Il diario della mia Ural

di Desiderio

Non riuscivo a dormire e nemmeno a chiudere gli occhi, neanche per un secondo. Era una notte estremamente silenziosa, calda e piena di pensieri a L’Avana.

Nella testa avevo molte immagini della città, e, dopo anni passati tra quelle vie, una convinzione aveva preso piede dentro di me: l’Avana non è Cuba.

Quell’isola così piccola, carica di problemi, ma vivace e piena di mille sfumature… avevo visto e conosciuto così poco. Volevo visitarla tutta e non in maniera comoda. Desideravo qualcosa che unisse diverse mie passioni. Un’avventura in moto insieme ad un amico era l’idea che mi ha subito illuminato. La connessione con il Che, e quello che lui visse insieme ad Alberto per tutta l’America Latina nel 1952, è stata poi automatica. La “poderosa” Norton 500 in questo caso è divenuta un sidecar Ural della Seconda Guerra Mondiale. Mai avrei pensato di innamorarmi così profondamente di lei. Vecchia, tanto vecchia. Tosse da consumata fumatrice, ruggine dappertutto, sporca, storta, serbatoio semidistrutto, marce che saltavano, consumi “eccellentemente” fuori controllo, ma un grande cuore. Quello che si dice amore a prima vita.

I mesi a seguire mi hanno permesso di mettere insieme i pezzi del puzzle: il percorso, le tappe e l’amico giusto, Jose Balboa (Pepe per gli amici), il ‘mio Alberto’. Quindici province in quasi tre mesi, una buona manciata di giorni per ognuna, dove ad attenderci abbiamo trovato, di vota in volta, i rappresentanti delle varie istituzioni locali, tra interviste, chiacchierate a ruota libera, visite ai piccoli e musei e agli astudi degli artisti, sopralluoghi e molto entusiasmo e umanità.

L’insieme del viaggio è stato un termometro, in primis per sentire il livello culturale di Cuba, delle sue attività e gli umori lungo il nostro cammino. Però alla fine entrare in contatto col cuore profondo e pulsante dell’isola mi ha permesso di conoscere maggiormente me stesso.

Non sono mancati momenti difficili, anzi… forse hanno rappresentato l’aspetto principale di tutta l’esperienza.

La moto, per quanto fosse romantica, ha dimostrato tutti i suoi anni e quasi sempre i nostri piani sono stati stravolti con estrema eleganza.

Giorni interi fermi per trovare un meccanico o un pezzo di ricambio. Persone che fino a notte fonda hanno dato una mano, donando se stessi, il loro tempo e il loro lavoro con entusiasmo e generosità, quando tutto, poi, finiva con un po’ di rum e tanti pensieri di strade e persone conosciute e scoperte in giorni e giorni vissuti sopra un sidecar.

Non mi dimenticherò mai di un meccanico di Baracoa, l’ultima tappa del viaggio di andata, che pur avendo le gambe paralizzate da due evidenti trombosi, si buttò letteralmente a capofitto nel motore e nei congegni della Ural, per aiutarci a portare a termine la nostra missione. La moto infatti non andava e lui riparò il cardano della gomma posteriore, i freni, il sidecar laterale che si stava staccando per colpa delle vibrazioni, le valvole, le fasce dei pistoni… in pratica tutto. E per ripulire le valvole utilizzò una polvere estratta dallo strofinio di un coltello soprta una pietra. Cose d’altri tempi, che al solo pensarci mi emozionano ancora.

Dei numerosi aneddoti ne ricordo uno in particolare: Escambray, una tappa tecnicamente impegnativa che alla fine è risultata terribilmente difficile. La nostra compagna, la Ural – che in base all’estro e alle esigenze del momento prendeva nomi diversi (Cachita, la Gata, la Casi Rota, la Chiquitica, Palmiche, Betty), ha dimostrato di essere una vera “signora”. Il percorso previsto, circa un’ora e mezzo di cammino, prevedeva una quarantina di chilometri attraverso rilievi da far invidia alle montagne russe più estreme. La sicurezza del tracciato era pari a zero, mentre freni a tamburo inesistenti e cardano difettoso erano già inclusi: come se non bastasse ecco l’imprevisto che ha trasformato un itinerario piuttosto breve in un’avventura da quasi dieci ore. La nostra “signora” ha continuato a spegnersi praticamente ad ogni salita, inspiegabilmente. Certo, il peso notevole del mezzo carico di bagagli e le salite tutt’altro che ‘morbide’ non aiutavano ma ci doveva essere dell’altro. Abbiamo pensato di tutto, dando sempre la colpa ‘alla centralina’, un classico. Dopo aver ipotizzato ogni tipo di guasto ecco la soluzione. Semplice. Dannatamente semplice. Il motore non pescava benzina. Perché? Ruggine, carburatori sporchi? No. Il serbatoio era pieno di foglie!

La nostra costante nemica è stata la pioggia. Siamo soliti accostare Cuba al sole, al caldo, al mare. In parte è così… ci vuole comunque un po’ di fortuna. Noi, chissà perché, tutte le volte che ci accingevamo a partire, venivamo investiti da piogge torrenziali. Improvvise e calde.

Avevamo delle giacche antivento decisamente leggere, che comparate al contesto facevano sorridere, e corde e nylon per coprire i nostri bagagli e le attrezzature. Un notevole problema, che ha avuto il suo apice alla Farola, una meravigliosa catena montuosa, anche lei segnata nel mio taccuino come strada “dangerous”. Il percorso sembrava come tanti altri fino a quando non siamo arrivati a circa venti chilometri da Baracoa; in pochi istanti è successo letteralmente di tutto.

Ci siamo preparati con il nostro kit da “armata Brancaleone” a quello che sembrava essere un semplice temporale. D’improvviso il temporale è divenuto uragano. Come dicono loro, un “tronco” d’acqua è sceso impietoso sul nostro già precario impianto elettrico, facendo spegnere immediatamente la moto. Non avendo possibilità di muoversi, io e il mio compagno, tra un sorriso e un pianto, non sapevamo che fare. Ad ogni modo bisognava muoversi da lì. Ricordo che tra sforzi e un pizzico di disperazione, per rompere quel momento difficile, ho preso la mia camera portatile incominciando a parlare di cinema, di riprese estreme, di climax. Che poi in effetti non era lontano da quello che stava avvenendo.

Fortuna che alcune persone, vedendo due anime in pena nel bel mezzo della strada, ci hanno ospitato in casa per tutta la notte.

Come finale potrebbe funzionare così. In realtà, dopo quel grande acquazzone, ci sono voluti non pochi tentativi per far ripartire la povera Ural. E non solo. La pioggia fece visita alla mia telecamera. Sole, asciugacapelli, varie fonti di calore sono stati solo alcuni dei numerosi tentativi di rianimarla. Niente. Mancavano ancora un mese e mezzo di riprese e mezza isola da vedere, e avevo perso la mia compagna. Solo una volta giunti ad Holguin sono riuscito a riportarla in vita.

Nel corso del viaggio ho imparato a conoscere ogni singolo sintomo e comportamento della mia amata Ural. Se all’inizio non riuscivo neanche ad accenderla da solo, col passare delle settimane ho imparato a farlo anche scalzo. Ogni difetto si è tramutato in una diagnosi super chirurgica, millimetrica, a volte un po’ surreale però quasi sempre giusta. La conoscenza che i meccanici avevano acquisito negli anni, forzatamente l’ho dovuta sviluppare mettendoci su il sedere ogni santo giorno per quasi tre mesi e macinando chilometri in quantità. Punti deboli moltissimi. È un mezzo che non si può proprio definire una moto. È qualcosa di diverso. Non puoi correre, fare manovre azzardate o pensare di andare in piega. I freni… per carità! Forse i modelli nuovi sono altra cosa, ma quelli a tamburo… tirare giù i piedi era meglio. La non equilibratura delle gomme porta a consumi davvero eccessivi degli pneumatici: quattro coppie in tre mesi non sono male. Forse però il suo problema più grande è il cosiddetto platino, quello che chiamiamo “puntine”. Un blocco di metallo con elettrodi che muovendosi come tenaglie mandano corrente. Tutto nella norma se non fosse che per vibrazioni, buche, acquazzoni, ne avremo cambiati tantissimi, da non ricordarmi quante volte.

Ma a far dimenticare tutte le sue mancanze c’è lui, il grande cuore che la muove, il motore. Un bicilindro da 750 cc veramente forte, con doppio carburatore e trasmissione a cardano.

Può lasciarti a piedi, ma mai per sempre. Con la giusta pazienza si trova sempre il modo per farla ripartire.

Ai meccanici che, dopo l’ennesima riparazione, mi dicevano sorridenti “ora non avrai problemi fino al tuo ritorno a L’Avana” rispondevo, un po’ per scaramanzia, un po’ per esperienza: “Certo, come no!”. Fino al guasto successivo. E alla nuova tappa di questo lungo viaggio alla scoperta di Cuba.

cliccando sull’immagine qui sotto puoi vedere il trailer del film: