De Molfetta. Un’aria da tragedia annunciata dietro il sorriso del clown

di Alessandro Riva

Francesco De Molfetta, The Kiss of Death, 2014, cm 60x14x40.

“Da bambini si sogna di diventare cantanti, attori, astronauti. Tu cosa sognavi di diventare?”, ha chiesto una volta un intervistatore a Francesco De Molfetta. Risposta, lapidaria e sarcastica quanto il suo lavoro: “Sognavo di vendere giocattoli!”. In questo umorismo freddo, controllato, che arriva dritto al cuore di chi ascolta – o di chi guarda –, senza mai perdere il self control, c’è tutto il De Molfetta di oggi. L’artista che del gioco, e dei giocattoli, ha fatto stile, e simbolo, ed emblema (giocattoli di cui rovesciare il senso, i codici, la forma: giocattoli obesi, sformati, alterati, deformati; giocattoli da sovvertire, da demistificare, da irridere, creati apposta per scalfire, e per sovvertire, le logiche della politica, dello spettacolo, della comunicazione, della società di massa); ebbene, quest’artista, rivendica d’un tratto di aver desiderato, da sempre, nient’altro che vendere giocattoli – un mestiere qualsiasi, senza pretese, senza alcuna velleità creativa, artistica, intellettuale. E tuttavia è proprio, in un certo senso, ciò che oggi sta facendo– vendere giocattoli, nient’altro che questo (ai galleristi, ai collezionisti, al mercato dell’arte). Giocattoli particolari, creativi, ironici, perfidi, intelligenti, demistificanti: antigiocattoli, potremmo chiamarli, parafrasando il gergo futurista; oltre che giocattoli d’artista, certo; ma pur sempre di giocattoli si tratta.

Francesco De Molfetta, HELL-icopter, 2014, vetroresina, alluminio, perspex, vernici da carrozzeria.

Ironia, autoironia; demistificazione, spiazzamento dei luoghi comuni, rottura degli schemi; gioco con le parole, e coi significati che vi sono sottesi. Le medesime caratteristiche su cui si basa tutto il suo lavoro (ed ecco che una domanda sorge, spontanea, in noi: e in fondo, se fosse tutto vero?Se Demo avesse davvero voluto, fin da bambino, vendere giocattoli, nient’altro che questo? Non nascono anche così, soprattutto così,in modo imprevedibile e bizzarro, per vie tortuose e per cortocircuiti esistenziali e mentali, i talenti, le passioni, le vocazioni artistiche, nell’era della comunicazione di massa e della caduta dei miti, dei codici, dei valori stabiliti?).

Difficile, di fronte all’ironia caustica e attentamente calibrata dell’artista, riuscire a distinguere il discrimine tra vero e falso, tra rigore e illogicità, tra gioco intellettuale e goliardia: i piani si mescolano, si alternano, si amalgamano l’uno all’interno dell’altro, rendendoci indifesi di fronte alla lucidissima illogicità di un reale sempre più bizzarro e inafferrabile, e facendo, del lavoro stesso, una metafora perfetta di un reale sempre più fluido, sfuggevole, liquido(secondo l’accezione fornitaci a suo tempo da Zygmunt Baumann), irriducibile a una visione logica e coerente, e non raccontabile secondo una narrazione lineare e un punto di vista univoco e razionale. Risiede in questo slittamento continuo, sottile, raffinato dei codici e dei riferimenti, il senso dei giochi di forma e di parole, degli irresistibili calembourvisivi che costellano il lavoro spietato, divertito e sapientemente ironico di Francesco De Molfetta, oltre che perfettamente consapevole dei meccanismi di sorpresa e di sradicamento intellettuale dello spettatore, non più da épater,come credevano, e volevano, gli avanguardisti primonovecenteschi, ma da sorprendere in maniera più sottile, divertita, consapevole e partecipe, mai banale e scontata.

Francesco De Molfetta, Cogito Ergo Bum!, 2003, tecnica mista, cm 21x28

Dietro la maschera dell’ironia, del gioco, del divertissement, del sorriso divertito e complice, anche De Molfetta (come ogni clown che si rispetti) nasconde un’anima sottilmente tragica. Sono molte le opere che sottintendono, dietro l’apparenza scanzonata, un’idea di pericolo, di tragedia annunciata.

Che dire di quell’insistenza sul tema della morte attraverso il simbolo macabro del teschio legato ai simboli della società del consumo – non, come si potrebbe superficialmente pensare, banale concessione al gusto artistico del nostro tempo, bensì consapevolezza dell’indissolubile legame che lega società dello spettacolo e morte, consumismo e morte, opulenza occidentale e morte, moda e morte: in che altro modo leggere, altrimenti, azioni come quella di pochi giorni fa sulla spiaggia del resort di lusso a Sousse, in Tunisia, dove gli attentatori cercavano scientificamente di colpire i turisti occidentali e il loro stile di vita che ai loro occhi appariva simbolo del lusso, del piacere, della dissoluzione e del consumismo occidentali? E come non vederci un’eco, seppure lontana e metaforica, in opere come “HELL-icopter”, o “HELL-mess” (che si basa sul contrasto tra la borsa che ricalca quelle del celebre marchio di moda, e il teschio che inaspettatamente vi sporge), o “The Kiss of Death”, con un grande rossetto da cui esce, minaccioso, il ghigno beffardo di un teschio?

Francesco De Molfetta, Il vampiro, 2004, tecnica mista su fotografia, cm 47x32

In altre opere, invece, il gioco a rimpattino con lo spettatore (e con l’aria di tragedia che rimbalza dalle pagine dell’attualità) si fa più sottile. Pensiamo all’eco di tante tragedie domestiche (oggi passate quasi sempre sotto il cacofonico, banalizzante e burocratico neologismo di “femminicidio”) che fa capolino da opere come “Il vampiro”, del 2005, rendendo palese ciò che di solito, nelle famiglie per bene, viene nascosto sotto il tappeto: un’aria da tragedia annunciata, un indissolubile intreccio di volontà sadica (del marito-vampiro) e masochistica (della moglie-vittima) che fanno da contraltare, tutt’altro che raro, della felicità domestica ostentata di fronte all’obiettivo delle foto ufficiali. O, ancora, al clima di cupo terrore prodotto da campagne politiche e giornalistiche sciagurate, razziste e xenofobe, riflesso magistralmente, per metafora, in un’opera come “Il sogno dell’infante”, del 2004, in cui la materializzazione della Paura prende le sembianze di un enorme dinosauro chino, come nella riproposizione postmoderna del genio surrealista di un Gianfilippo Usellini, o di un Dino Buzzati redivivo, a scrutare minacciosamente la culla di un neonato.

Ma sono molte anche le opere che, forse in forme meno eclatanti ma in modo altrettanto radicale, si basano su una forma di negazione visiva, quasi a mettere sottilmente in crisi l’opulento e incontrastato predominio dell’immagine di cui è preda la società di massa.

Esemplare, in questo senso, un lavoro apparentemente innocuo e formalmente vivace, come quello delle “Foto mai viste”, del 2003, realizzato con 18 rullini fotografici; fortissimamente inquietante e radicale, però, nel momento in cui se ne decodifica il senso ultimo, nascosto: i rullini sono tutti pieni, dunque colmi, potenzialmente, di fotografie mai sviluppate – cioè mai viste, come recita il titolo – e che dunque, presumibilmente, non verranno mai viste da nessuno: quasi un ipotetico, volontario cimitero iconografico, nell’epoca della sovrabbondanza delle immagini, che reca in sé qualcosa di sottilmente tragico e insieme di potenzialmente sovversivo: un’ipotetica risposta a quella “pornografia dell’informazione e della comunicazione” e “dei circuiti e delle reti”, di cui parlava già Jean Baudrillard nel 1997 (cioè ben prima dell’avvento dei social network), “quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione”, e tutto si colora, in qualche modo, di una sorta di oscenità, che “non è più l’oscenità di ciò che è nascosto, rimosso, oscuro”, ma è “quella del visibile, del troppo visibile, del più visibile del visibile, è l’oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione e nella comunicazione”.

Ecco allora che le “foto mai viste” di De Molfetta si collocano, potremmo dire, all’opposto, in netto contrasto con questa “pornografia dell’informazione” di cui noi tutti siamo, che ci piaccia o no, insieme complici e vittime – quasi una premonizione, o un monito a tutti noi, alla nostra mania di rendere tutto visibile, tutto trasparente, tutto pubblicabile.

Francesco De Molfetta | DEMO

a cura di Alessandro Riva

Galleria Poleschi, Milano

1 – 31 luglio 2015

Foro Buonaparte, 68 Milano

+ 0286997153

info@poleschiarte.com

inaugurazione mercoledì 1 luglio h. 18.30