di Alessandro Riva
Davide Nido se n’è andato. L’arte italiana ha perso una delle figure più originali e interessanti della sua storia recente. Al di là dell’amicizia, al di là dell’affetto, del rispetto e della vicinanza umana, del percorso comune che ha unito indossolubilmente tutti noi – la generazione di artisti, critici e compagni di strada cresciuta, a livello lavorativo, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, tra battaglie combattute a suon di articoli, di idee, di testi, di opere e di ragionamenti, di mostre fatte e pensate insieme, di discorsi e di sogni di voler lasciare comunque un qualche segno, ognuno a suo modo, attraverso la propria passione e il proprio lavoro, in questi strani anni di rivolgimenti rapidi e vorticosi e di nervoso salatebeccare dell’arte da un linguaggio all’altro, da una sperimentazione all’altra, da un’idea più o meno bislacca, più o meno assurda, o, nei casi migliori, più o meno brillante e ingegnosa, all’altra; al di là di tutto questo, dunque, è un fatto, un fatto incontrovertibile e definitivo, che Davide Nido avesse trovato, e di fatto inventato, una sua forma espressiva, un linguaggio, una sua cifra stilistica peculiare, originalissima, inconfondibile – in breve, unica. Quel suo giocare coi materiali, farsi inventore e reinventore, manipolatore, giocoliere, artigiano, creatore, ogni volta uguale a se stesso eppure ogni volta nuovo, originale, con piccoli scarti di lato e invenzioni formali differenti, di un unico progetto stilistico e formale coerente; quel suo reinventare la materia stessa del dipingere: il suo farsi “pittore senza dipingere”, come lo definì (e lui amava molto questa definizione, così sintetica e calzante) un altro nostro compagno di strada, di battaglie e di idee che se n’è andato purtroppo presto, infinitamente presto – Maurizio Sciaccaluga, che di Nido aveva seguito ed amato fin dagli albori le prove artistiche e le vicende, e che tanto aveva sostenuto e aiutato, nello sviluppo del suo lavoro, intelligentemente, appassionatamente, criticamente. “L’opera di Nido”, scriveva Sciaccaluga, “è una speranza. Anche perché dipinge senza dipingere”: e che gioia, che freschezza in quel parlare di “speranza”, a proposito del lavoro di Davide, da parte di Sciaccaluga – poiché di speranza abbiamo sempre bisogno, che ne siamo o meno consapevoli, noi tutti, che lavoriamo col mutevole, inconsistente e fragilissimo materiale di cui da sempre è fatta l’arte.
E poi, quel suo seguire il sogno di un linguaggio che prescindesse dalle scuole, dalle definizioni, dai piccoli ambiti nella quale il percorso di un artista troppo spesso viene classificato, per essere in qualche modo neutralizzato e banalizzato. Astratto? Decorativo? Opitcal? Newpop? Neospazialista? Il linguaggio di Nido fatalmente sfugge a ogni definizione, a ogni declinazione troppo angusta (tanto che lo stesso Sciaccaluga, nel medesimo testo critico, affermava che, parlando del suo lavoro, si dovesse procedere “necessariamente per esclusioni”, non potendo affiliarlo ad alcuna corrente: tanto che, “in un’ipotetica libreria divisa per gruppi, movimenti e tendenze, i cataloghi di Nido finirebbero “in un ripiano a parte, dedicato solo a lui”; mentre solo alcuni sparsi fogli e fotografie andrebbero magari ad accompagnarsi a tutti gli orientamenti sopra citati – astrattismo, optical, informale, etc. -, ma unicamente “come tradimenti e variazioni sul tema”).
“Ho lavorato con due grandi artisti, Luciano Fabro e Aldo Mondino, due artisti molto diversi che hanno sempre sperimentato nuovi materiali”, ci raccontò una volta Davide, quando lo intervistammo, con degli studenti del corso di curator di Brera, per la realizzazione di un Premio dedicato proprio ad artisti ex studenti dell’Accademia, del quale lui era in seguito era divenuto anche docente. “Quello che m’interessava maggiormente era la ricerca di un nuovo linguaggio personale, e attraverso vari passaggi e sperimentazioni sono arrivato alla colla a caldo, un materiale che mi stimola molto per il suo effetto materico. Non a caso mi ritengo, più che un pittore, un pittore-scultore”.
Pittore-scultore: singolare che, in realtà, solo negli ultimi tempi – per troppo poco tempo! – avesse ricominciato davvero a lavorare sullo spazio, e con lo spazio, con lunghi filamenti di anelli colorati (le sue famose “girelline”), filamenti che a loro volta riprendevano, volutamente, l’idea dei vecchi reticoli e grovigli dei “nidi” e delle ragnatele delle sue prime prove installative, nei primissimi anni Novanta; quei labirinti plastificati dai quali il suo percorso artistico era iniziato: labirinti e reticoli che Davide lavorava e creava, come mi raccontò una volta, “a propria immagine e somiglianza”, come “metafore di autoritratto”, simboli a un tempo dei suoi procedimenti cognitivi e mentali e del mutare, del lottare, del creare e del rigenerarsi del suo stesso organismo – lotta con cui ha sempre dovuto fare i conti, afflitto com’era da malattie che l’hanno costretto a lunghi periodi di distacco dal lavoro e di forzata degenza in ospedale.
Dopo l’esperienza come studente a Brera, dove aveva studiato con Luciano Fabro, scoprendo la forza dei materiali e di un loro uso a-convenzionale e concettualmente risonante, e dopo l’esperienza, altrettanto formativa, come assistente di Mondino (e quanto c’era della libertà formale e compositiva, di gioco e di ricerca di ogni materiale possibile, dell’eredità di Mondino, nel suo lavoro!), assieme ad altri amici inseparabili e futuri compagni di strada come Federico Guida e Dany Vescovi, negli anni Novanta Davide ha fatto parte di quell’esperienza, se non unica, certo estremamente originale ed entusiasmante, per chi l’ha vissuta e vi ha girato intorno, di quel gruppo di artisti che, come in un progetto realmente comune, partecipato e collettivo, avevamo denominato – i cinque artisti assieme a me e a Sciaccaluga, cui s’era poi aggiunto anche Marco Meneguzzo – “Pentathlon”, ovvero l’unione dei cinque sport differenti che corrono e concorrono insieme – e, a mo’ di sottotitolo, “Nuova palestra artistica milanese”: composto, oltre che dallo stesso Nido, da Federico Guida, da Leonida De Filippi, da Dany Vescovi e da Alessandro Bellucco – quelli che, al di là delle definizioni e delle scuole, sono sempre stati tra i suoi più cari amici e compagni di strada anche negli anni a venire.
Nel testo del catalogo che allora facemmo, quando la “Nuova Palestra” fu presentata, alla Permanente, con la complicità e l’appoggio di un altro che negli anni a venire sarà uno dei compagni di strada e riferimenti fissi per Davide, Giovanni Bonelli, scrivevo che questo gruppo di artisti era, nella mia visione dell’arte italiana di quegli anni, un po’ il prosieguo ideale di un’altra esperienza che, in quel caso, io da solo avevo raggruppato e inventato, pochi anni prima − quell’Officina Milanese di Frangi, Petrus, Pignatelli e Velasco che rappresentò poi il punto di partenza ideale di molte esperienze artistiche degli anni seguenti (a cominciare dalla successiva esperienza di Italian Factory); perché ancora una volta si delineava, quel gruppo di artisti della Nuova Palestra artistica, “non come un gruppo coerente”, cioè teorizzato a priori e messo insieme, nei suoi varie elementi, un po’ forzatamente, come spesso avveniva nelle avanguardie e fino alla Transavanguardia, quanto piuttosto come “un sodalizio, un luogo di incontro, di amicizia, di scambi di esperienze e di interessi comuni”. Con alcune linee di lavoro che univa tutti i suoi membri. Come, ad esempio, il lavoro sui materiali e i supporti, l’attenzione ai diversi linguaggi formali e, non da ultimo, il continuo smottamento di significati e di attenzione tra astrazione e figurazione, quasi tutti e cinque avessero voluto già guardare oltre il piccolo e già un po’ claustrofobico ghetto della neofigurazione italiana di quegli anni Novanta. “Quello di Bellucco, Guida, Leonida, Nido e Vescovi”, scrivevo nel catalogo allora, “è dunque davvero non tanto un gruppo, ma una situazione di comunità, di sensibilità comune”, un punto di incontro di amicizia e di lavoro collettivo e di sambi incrociati, prima ancora che di unione e di similitudine dal punto di vista teorico e concettuale.
Da allora, anche l’idea di gruppo s’era andata rerafacendosi, ma Davide era rimasto un artista che, pur solitario e originale e coerente nella sua ricerca, amava gli scambi d’idee e i continui confronti, con i suoi amici di sempre, gli artisti a lui più vicini, e anche con i critici e i galleristi che continuavano a seguirlo, come – oltre a Giovanni Bonelli – Daniele Palazzoli e Roberta Lietti.
Di certo, da allora il suo lavoro s’è raffinato, complicato, ha preso diramazioni differenti e spesso sorprendenti, a volte anche volutamente dividendosi in cicli, linguaggi e stili che, rigorosamente com’era rigoroso in ogni suo fare, Davide distribuiva tra i galleristi che lavoravano con lui perché non si confondessero tra loro, e non si pestassero i piedi a vicenda.
In tutti i cicli dell’artista, nelle variazioni formali e tematiche della sua poetica, tuttavia, alcuni elementi rimangono, immutabili. L’uso della colla a caldo. La griglia, a volte maggiormente ordinata, altre volte volutamente più caotica e frattale, altre ancora rigorosamente giocata sul gioco di tonalità di due o tre colori soltanto, altre ancora del tutto monotono; e poi la superficie dei bottoni, vuoi maggiormente aggettante, vuoi quasi piatta, vuoi ancora annullata in un unico livello. E poi, il metodo di lavorazione: con un equilibrio, un bilanciamento tra casualità e rigore che popchi artisti hanno saputo trovare.
“La griglia ordinata che traccio nelle mie opere a volte ha un’origine casuale”, diceva ancora nell’intervista di cui sopra. “Nella fase iniziale di un lavoro parto da un’idea che spesso si modifica durante l’esecuzione, che mi porta a un risultato completamente diverso da quello da cui ero partito. Il procedimento dal punto di vista visivo può sembrare molto semplice, ma è un lavoro lungo, monotono e ripetitivo, nel quale c’è sempre una forte emotività, ed è quella che mi stimola alla creatività. La colla a caldo è una materia poco duttile che non consente ripensamenti e che ha un tempo di lavorazione molto ridotto”.
Di certo, a giochi ormai, purtroppo, fermi rispetto a un possibile sviluppo futuro del suo lavoro al quale non avremo mai la fortuna di assistere (e Dio sa quanto l’avremmo voluto!), c’è il dato di fatto che il suo lavoro sulla composizione e sulla forma e la sua approfondita e originalissima ricerca sui materiali ne hanno fatto, e ne fanno, un punto di riferimento imprescindibile, in Italia, per la riflessione intorno al rapporto tra astrazione e decoratività. Lo stesso concetto di decorazione, fino a pochi anni fa considerato svilente per l’arte di ricerca, è stato in questi ultimi anni rivalutato e riportato al centro del dibattito artistico, come una delle possibili chiavi di rafforzamento e di rinnovamento del processo artistico, anche grazie alla sua ricerca. Davide Nido ne ha fatto uno dei capisaldi del suo operare, ridefinendolo in chiave colta ed estremamente articolata, arrivando a una sorta di iperdecoratività che ha rimandi nell’arte optical e spazialista, e che ha nel concetto di “ripetizione differente”, teorizzata dal filosofo francese Gilles Deleuze, una delle sue chiavi di lettura più calzanti. La trama stessa dei suoi complessi labirinti artificiali, realizzati attraverso la reiterazione di elementi modulari, spesso di forma circolare, sulla superficie della tela, con l’utilizzo di materiali atipici per la pratica artistica tradizionale, come le colle siliconiche sparate a caldo sulla superficie pittorica, diventa così la metafora di un nuovo modo di fare arte, non più legato alla rappresentazione né alla riflessione diretta delle problematiche sociali o antropologiche del mondo, bensì a un mix di armonico processo frattale e autogenerato che vede, nel suo ripeteresi sempre uguale e sempre differente, un’analogia coi processi costitutivi del linguaggio, della struttura del mondo e della stessa forma del cosmo e della natura.
Davide se n’è andato, è vero, e faremo fatica a rassegnarci all’idea. Ma i suoi quadri rimangono, rigorosi, poetici, evocativi e risonanti come pochi altri artisti hanno saputo fare in questa nostra breve stagione artistica.
Milano, 29 ottobre 2014