di Hans Ulrich Obrist.
“Come gli insetti che osserva, collezione ed evoca nei suoi disegni, Ciacciofera sembra scrutare il mondo con occhi multisfaccettati che sfondano il reale in tutta la sua vastità. Questo sguardo penetrante, che tutto abbraccia, gli impedisce di soffermarsi su un singolo aspetto di questa realtà, come se per lui ogni elemento del pensiero o della materia facesse parte di un tutto ininterrotto”. Così scrive Christine Macel a proposito del lavoro di Michele Ciacciofera, di origine italiana (padre palermitano e madre sarda) ma da sempre cittadino del mondo (da molti anni vive a Parigi), che ha da poco inaugurato la sua ultima mostra personale a Milano, nella sede della Primus Capital in corso Venezia 36. Qui di seguito proponiamo uno stralcio dell’intervista realizzata da Hans Ulrich Obrist in occasione della mostra (pubblicata nel catalogo edito da Johan & Levi), nella quale l’artista spiega la genesi del suo lavoro e i suoi sviluppi più recenti, in particolare quelli a cui è giunto con mostra milanese Enchanted Nature, Revisited(che l’artista considera come una tappa della più vasta personale che terrà a luglio a Pechino, presso il Cafa Museum), incentrata, come spiega lo stesso Ciacciofera, sul “tema della memoria e sulla relazione ancestrale e contemporanea tra gli esseri umani e una sorta di passato misterioso, iscritto nella nostra memoria, che spesso non riconosciamo ma che fa parte di noi e che governa da sempre l’ordine cosmico”.
Dipingi, disegni e realizzi sculture e ugualmente collezioni ceramiche e fossili. Come sei arrivato all’arte? Come l’arte è arrivata a te?
Ho iniziato all’età di quattro anni. Era ancora qualcosa di indefinito nella mia testa, ma disegnavo senza sosta. La famiglia di mio padre è siciliana e quella di mia madre è sarda. Dal lato materno, l’arte e la cultura sono iscritti nei geni familiari. Una prozia di mia madre era una scrittrice di origini sarde molto conosciuta, Grazia Deledda.
Certamente, la conosco. Ricevette il Premio Nobel nel 1926.Dunque sei cresciuto in un ambiente letterario.
Il mio prozio era Salvatore Cambosu, un altro famoso scrittore. Gli ho dedicato un’opera. Alcuni favi d’api che diventano libri immaginari, depositari di una natura ideale. (…) Considero Miele Amarodi Cambosu un vero capolavoro: dopo averlo letto ho cominciato a riflettere e ad essere affascinato dalla incessante attività delle api. Per me sono esseri pressoché perfetti ed emblematici di un ordine superiore. Guarda le strutture realizzate dalle api, sono sorprendenti, fanno parte della mia visione dell’ordine del mondo e dell’universo. A partire da questi oggetti ho recentemente riunito materiali organici per creare alcuni libri.
Produci anche sculture, ceramiche, installazioni.
Sì, eseguo anche sculture in ceramica. Ho realizzato di recente alcune opere che in un certo qual modo richiamano i trilobiti, fossili con una morfologia a tre lobi. I trilobiti sono anch’essi parte della mia collezione, ma soprattutto sostanziano il mio immaginario. Collezionarli è una specie di mania – sono esseri/oggetti dalla forma a mio avviso perfetta, ma non ancora definita dal punto di vista scientifico, dunque misteriosi e affascinanti. Attraverso di essi sono arrivato alla filosofia dello scienziato e Premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli, uno dei padri della fisica quantistica. Pauli si confrontò con Karl Gustav Jung sulla questione del passato, sostenendo che la scienza sviluppa idee e teorie che a un certo punto diventano impossibili da spiegare. Questa convinzione lo spinse verso le posizioni dello psichiatra svizzero, in particolare verso la teoria della memoria ancestrale degli esseri umani. Sono convinto che avessero ragione. Io, per esempio, ho realizzato una ceramica astratta che rassomiglia a un tronco d’albero con dei rami sottili come fili e in seguito, facendo delle ricerche su internet, ho ritrovato pressappoco la stessa forma in un fossile vecchio di 450 milioni di anni.
È a questo punto che le collezioni entrano nel tuo lavoro. Hai delle raccolte di fossili e d’insetti, in particolare di farfalle.
Vero, nell’opera From the Eternity of Lifeho utilizzato un fossile sul quale ho poggiato una farfalla e un insetto.
Dunque combini le tue opere e le tue collezioni.
Esattamente. In WhiteFolk of the Earth, ci sono biglie in terracotta fissate a una tavola di legno che avevo trovato e sulla quale ho inciso poi alcuni segni, elementi che sono molto presenti nel mio lavoro. In The Politics of World Building, ho legato con la cera dei favi. Mi piace il rapporto tra i materiali e soprattutto amo rimetterli in gioco. La cera proviene dalla natura ma poi diventa un prodotto commerciale, dunque c’è uno scostamento natura-industria che voglio disfare. In Rock Containing a Language, per esempio, un fossile con due foglie è a fianco di pezzi che ho realizzato polverizzando nel calcare.
Si può dire che i fossili siano dei ready made: fanno parte di collezioni e archivi, ma sono anche degli attivatori per le opere.
Sì, sono le due cose contemporaneamente. Svolgono il ruolo di un archivio perché contengono della memoria, e d’altro canto è attraverso questi fossili che ho iniziato a ricostruire delle forme che sono il risultato di un’elaborazione psicologica della realtà. In Dream of a Sherden Childho ridotto in polvere del calcare per ricostituirlo in seguito per con un legante, aggiungendo dell’inchiostro e del colore acrilico. Altra cosa che mi interessa molto è infatti la possibilità di distruggere e ricreare qualcos’altro per arrivare a una sorta di ordine, che è naturalmente un ordine mentale. In Single-Hearted Endeavoursi tratta di forme realizzate con cemento e sabbia che ho successivamente inciso.
Creo una forma che, normalmente, è abbastanza tipica, come quella di terraglie che assomigliano a un piatto o a una scodella. Con del cemento mescolato a pigmenti e polveri, tra cui quella d’oro, ricreo questa forma ma imprimendo delle modifiche morfologiche, quasi in un processo alchemico, e poi incido dei segni utilizzando un chiodo. È qualcosa che nella mia personale visione si ricollega al linguaggio e alla terra ma anche all’universo.
In una certa maniera sono degli oggetti cosmici.
Certamente.
(…) Tornando alle tue fonti d’ispirazione, c’è Cambosu, c’è la letteratura e ce ne sono altre molto legate a contesti locali. Edouard Glissant scrive ne La Cohée du Lamentin che noi non possiamo che pensare in modo globale da un punto di vista che è probabilmente estremamente locale. Glissant si riferiva a un masso, la Cohée du Lamentin in Martinica, e per te questo luogo è la Sardegna. Puoi raccontarmi qualcosa in merito?
Direi che sono sia la Sardegna che la Sicilia.
Dunque una doppia ispirazione.
Sì. Spesso mi chiedono se sono italiano e, in effetti, sono nato in Italia, ma sono piuttosto figlio di due parti del paese che non assomigliano per nulla alle altre regioni della penisola. Due isola che sono l’una l’opposto dell’altra. La Sardegna ha una storia ancestrale molto importante con i suoi nuraghi e il popolo degli shardana, un popolo del mare che resta ancora oggi misterioso. (…) oggi la Sardegna è considerata una regione molto chiusa. Nell’antichità però i sardi, gli shardana, si spostavano ovunque… e ciò fa parte anche del mio modo di vivere. Ho passato tutta la vita a viaggiare, a spostarmi un po’ ovunque, facendo ricerche. Ma dovunque mi trovi continuo a vedere le cose da un punto di vista locale. La mia formazione in scienze politiche con specializzazione in sociologia e antropologia continua ad essere fondamentale per le mie ricerche. È dall’età di 18 o 19 anni che sono più legato agli scrittori e agli antropologi che al contesto del mio lavoro, cioè agli artisti. (…) Quando vivevo in Sardegna, andavo spesso a cercare le incisioni rupestri, le antiche scritture simboliche. Ho sempre tentato di riattualizzare questi segni. Ho memorizzato questa sorta di graffiti astratti, solo parzialmente decriptati, per trovarvi un senso. Li collego alle cose quotidiane. Un giorno, passeggiando in campagna a cento chilometri da Parigi, ho trovato delle pietre per terra. Avevano una forma molto speciale, che richiamava, nella mia visione, le Grandi Madri e attraverso queste pietre sono riuscito a ricollegarmi al mio contesto e alle mie origini.
Ieri ho visto il grande paesaggista Bernard Lassus. Mi ha parlato della sua teoria secondo la quale noi analizziamo per inventare. Dunque, per citare Marcel Broodthaers, noi tautologiamo, conserviamo, sociologiamo con le cose trovate – le tracce, gli insetti, le collezioni…, utilizziamo tutto ciò come base d’invenzione. Vale anche per te?
Esattamente. Memorizzavo le incisioni sulle pietre per poterle poi reinventare o attualizzare. Utilizzo il termine attualizzare perché la mia visione è strettamente legata al mondo contemporaneo. Per me la memoria costituisce un sistema musivo che consente di manipolare il tempo per andare al di là dei limiti dell’essere umano. Il massimo limite dell’uomo è la morte e dunque cerco di travalicarla. L’invenzione è il riutilizzo di materiali che nulla hanno a che vedere con il passato per costruire qualcosa che dialoghi con gli oggetti che collezione o che osservo. La creazione di un dialogo non ha come fine il trovare risposte. Non cerco risposte, preferisco piuttosto far scaturire domande attraverso il mio lavoro.
Il brano di intervista qui riportato è tratto dal volume:
Michele Ciacciofera, con testi di Christine Macel, Angelo Crespi, Hans Ulrich Obrist, Johan & Levi editore, 2016.
pubblicato in occasione della mostra:
Michele Ciacciofera | Enchanted Nature, Revisited
Milano, Palazzo Chiesa,
Corso Venezia 36
dal 7 aprile al 7 maggio 2016