Cazzaniga. Ricordo di un pittore vero. A ritmo di jazz

Giancarlo Cazzaniga, Jazz man, 2003.
Giancarlo Cazzaniga, Jazz man, 2003.

Se n’è andato un po’ in sordina, alla fine di novembre del 2013, in un mondo dell’arte e in un ‘giornalismo culturale’ sempre più votato all’oblio della storia artistica recente che non sia quella ‘ufficiale’ riconosciuta dai santoni della critica che conta nei musei e nelle consorterie modaiole delle gallerie ‘di tendenza’. Se n’è andato così, uno dei protagonisti originali della pittura milanese degli anni Cinquanta e Sessanta, in una Milano oggi sempre più ‘globalizzata’ e sempre più svuotata di stimoli e dibattiti culturali reali, che non siano quelli della rincorsa a perdifiato del mercato in ogni sua possibile declinazione, dell’assoggettamento alla moda culturale del momento come diktat imprescindibile per potersi dire ‘contemporanei’, del dilagare onnivoro e ossessivo del design, dello strizzare furbescamente l’occhio al sistema, per cercare di stare a galla − anche da parte di chi, per vocazione, praticherebbe linguaggi ‘classici’ come quelli della pittura o della scultura − con sempre nuove pseudo-sperimentazioni da due soldi, sempre nuove (eppur già vecchie) ideuzze ‘installative’, giochetti privi di qualsivoglia senso e statuto critico, perennemente in bilico tra ricerca dell’effetto e dello spettacolo e incurabile analfabetismo linguistico. Se n’è andato così, in questa Milano artistica irrimediabilmente cambiata, Giancarlo Cazzaniga, a 83 anni, nel quasi silenzio generale di giornali e organi d’informazione, con poco più che una voce passata di bocca in bocca, da artista ad artista, da gallerista a collezionista, quasi a sancire un tempo diverso anche nella comunicazione della sua uscita di scena.

Cazzaniga è stato, infatti, un protagonista di quella Milano che girava tutta in un pugno di vie, tra via Solferino, via Fiori Chiari con la latteria delle sorelle Pirovini e il Giamaica: la Milano di Bianciardi, di Manzoni e di Fontana, ma anche del gruppo disomogeneo del Realismo Esistenziale, di cui Cazzaniga farà parte ma un po’ di straforo, come eterno compagno di strada, perso in una ricerca solitaria e originale − primo e solo a portare le note apparentemente dissonanti del jazz dentro all’humus, ai colori e alle terre dell’informale lombardo −, ma sempre in costante rapporto e confronto con ciò che facevano gli altri suoi compagni di strada e di avventure pittoriche, i Romagnoni, i Banchieri, i Vaglieri, persino il solitario e cupamente geniale Ferroni col suo gruppo di amici viareggini della “Metacosa”.

Nato a Monza nel 1930, Cazzaniga aveva avuto una formazione artistica da quasi autodidatta, salvo episodici studi prima a Monza e solo in seguito a Milano. La crisi economica, la mancanza di soldi e le vicissitudini della guerra lo avevano infatti costretto ad abbandonare gli studi di pittura, che fin da giovane costituivano la sua grande passione. “Mia madre era nella tessitura”, avrebbe raccontato a Guido Vergani nel 2003, “Papà invece era cappellaio, un sciur capetè, lo chiamavano così perché chi sapeva trattare il feltro aveva molto lavoro e guadagnava di più. Poi, nel 1930, le industrie entrarono in crisi e cominciarono a lasciare a casa la mano d’opera. Papà rimase disoccupato per molti anni. Poi, nel ’38, trovò lavoro all’Esemberger, una fabbrica di accumulatori, a patto di emigrare in Germania. Venne la guerra. Nel ’43, dopo l’8 settembre, riuscì a tornare ma lo ‘rimpacchettarono’. Mia madre ed io, che avevo 13 anni, gli andammo dietro. Mio fratello rimase a Monza con i nonni. Finimmo a Nekarsulm, vicino a Stoccarda. Ero arrabbiatissimo. Avevo dovuto lasciare l’Istituto d’Arte di Monza che frequentavo alla sera. Ero felice in quelle aule, a disegnare, a copiare dal vero. Era il mio pallino. Parlare di vocazione è troppo pomposo. So che, sin da bambino, il disegno era la sola cosa che riuscisse a tenermi a tavolino, a non essermi di peso”. E, anche da pittore ormai maturo, proprio il disegno sarà una costante del suo lavoro: “infaticabile disegnatore”, lo definì Alberico Sala. E Alfonso Gatto, poeta amico di artisti e grande conoscitore dell’arte e degli artisti, dell’arte vera e ruspante, che si discuteva ancora ai tavolini dei caffè e non nelle (ancora di là da venire) “gallerie di tendenza”, scriverà che “Cazzaniga nel segno decide, taglia corto con gli indugi, per contendere il ‘più’ dell’evidenza alla morbidità elusiva, silenziosa che pure l’inquieta e gli strugge l’animo”.

Il giovane Cazzaniga, lasciati gli studi di disegno a Monza, si ritrova così in Germania, tra gli emigranti. “Ci ritrovammo in una baracca di legno. Di fronte, ricordo, c’era una fabbrica Fiat Nsu che costruiva motocarrozzette cingolate, credo per il fronte russo. Noi lavoravamo in una fabbrica di pistoni. Sì, anch’io. Facevo il manovale. Durò un anno. Nekarsulm fu bombardata, sbriciolata e bruciata. Spostarono i capannoni in una cittadina vicina, Heilbron. Un pomeriggio dell’agosto ’44, piovve fosforo, piovvero migliaia di spezzoni incendiari. Quando uscii dallo scantinato che ci protesse, non c’era più niente. Bruciava tutto. Ho attraversato il parco. Era giorno e sembrava notte. Vidi delle figure, delle sagome abbracciate. Gli passai accanto e svanirono in cenere. Erano uomini e donne cremati dal fosforo. Nel ’45 scappammo a piedi, camminando di notte per evitare di essere presi di mira dagli uni e dagli altri, dal tedeschi e dagli alleati che avanzavano. Siamo arrivati a Monza il 23 aprile, due giorni prima della Liberazione”.

Inizia qui la seconda vita di Cazzaniga, quella che lo porterà a diventare uno dei protagonisti del realismo pittorico milanese. “Che fare?”, si domandò dunque, a guerra finita. “Il pittore. Mio padre, che prendeva la vita sempre positivamente, sempre col sorriso, non trasecolò. Mi disse che ero libero di tentare e che gli dispiaceva di non potermi aiutare. Dovevo arrangiarmi. Lo feci. Per campare, disegnavo per Cova pupazzetti colorati sui mobili per bambini. I proprietari furono gentili. Quando, nel 1959, feci la mia prima personale alla Galleria Bergamini, divennero miei collezionisti. Cominciai a muovermi nell’ambiente… Per uscire dal totale autodidattismo, mi iscrissi all’Accademia Cimabue, dove hanno imparato il mestiere anche Romagnoni, Guerreschi e Ceretti. …Faticavo a tirare avanti. Mancavano sempre i soldi per i colori. Allora, usavo pezzi di carta. Treccani mi aiutò pagandomi un lavoro di riordino del suo archivio  e permettendomi di dormire nel suo studio di via Borgonuovo. La vita non era per niente facile, ma pensavo di essere un privilegiato perché potevo fare quel che per passione mi pareva di fare. Era una bella Milano, come dice una poesia di Alfonso Gatto. Trovavi sempre qualcuno disposto a darti una mano”.

Giancarlo Cazzaniga, Suonatore di jazz, 1964.
Giancarlo Cazzaniga, Suonatore di jazz, 1964.

“Il debutto ‘breriano’ di Cazzaniga avvenne in quel clima”, chioserà Guido Vergani. “Era una Milano solidale, affettuosa e lo era ancora di più nel caposaldo degli artisti l’Accademia, il caffè della ‘sciura Titta’, il bugigattolo delle Pirovini e il Giamaica”. “Era una Milano che, a pensarci adesso, sembra una favola”, gli farà eco un altro scrittore che Milano l’ha vissuta sempre con amore, Carlo Castellaneta: “piena di personaggi incredibili, come Lucio Fontana che teneva banco al Giamaica parlando di spazialismo con la sua cadenza sudamericana, e Morlotti che calava il Settebello al tavolo dello scopone”, e lo stesso Cazzaniga che, squattrinato, giovane e “non ancora baciato dal successo, scambiava i suoi olii con piatti di tagliatelle delle sorelle Pirovini, e poi andava a giocare a boccette fino alle tre di notte nel mitico bar dell’Oreste… Ecco, di questa Milano che prima di ogni altra città italiana aveva scoperto il jazz e sognava di diventare New York, Giancarlo Cazzaniga è stato con i suoi dipinti il cantore. Anzi il poeta”.

Vennero dunque le prime amicizie: il gruppo che girava a Brera, intorno al Bar Giamaica, primo tra tutti Aurelio Sioli, giornalista e compagno di strada e di bevute di molti artisti, che per Cazzaniga “fu quasi un Pigmalione” (“mi diede lezioni di italiano, di storia dell’arte, di grammatica, di politica”); e poi i suoi amici e compagni di strada del Realismo Esistenziale…

“Io ho immediatamente legato con Tino Vaglieri e con i fratelli Dimitri e Pietro Plescan, bravissimi disegnatori ma dai tempi lenti, i tempi degli inverni russi, degli inverni cechoviani. Più tardi, nel 1957, Vaglieri mi cedette la sua coabitazione nello studio di Ferroni in corso Garibaldi 89 e diventammo amici. Insieme a Romagnoni, a Ceretti, a Guerreschi, a Vaglieri, allo stesso Ferroni, a Banchieri, a Luporini, a Caminati. fummo, secondo la critica, quel ‘realismo esistenziale’  o della ‘Scuola di Milano’. Eravamo, con Antonio Recalcati, e Valerio Adami, i più giovani del Giamaica. Ma non c’erano steccati né di scuola, né di età, né di successo”.

Come pittore, Cazzaniga emergerà soprattutto negli anni Sessanta, coi suoi celebri suonatori di jazz, solitari e disarmanti eroi armati solo di sax, di trombe o delle bacchette d’una batteria, che parevano usciti dal buio di qualche cave parigina o di qualche bettola zeppa di fumo, di musica e di calore umano; “quasi emblemi”, come avrebbe scritto Mario De Micheli, “di una vita allucinata e fantomatica, eppure vera: una vita immersa in fumosi spazi, dentro atmosfere grigie o neutre”. Lo stile era già allora quello che lo avrebbe contraddistinto anche in seguito: d’una pittura che, per usare sempre le parole di De Micheli, “punta essenzialmente sul tono diffuso, addirittura morbido, nebbioso, che gli consenta poi gli scatti di qualche riverbero, di una torbida luce, di un bianco abbagliante, e insieme, gli accenti nervosi dei suoi segni”.

Più avanti, abbandonati i suoi jazz men e le sue cantine zeppe di fumo, e conclusa anche l’esperienza feconda ma breve del Realismo Esistenziale, la sua attenzione si concentrerà soprattutto sulla natura. Una natura còlta nel dettaglio d’ogni forma e d’ogni colore, nel baluginìo d’ogni luce su un singolo petalo o stelo di fiore, con una pennellata “che si attorce attorno a una foglia e a un fiore lo trasforma come una giapponese carta dipinta”, quasi il pittore fosse immerso egli stesso nella natura, con una vitalistica emozione per coglierne di volta in volta i riflessi, i giochi d’ombre, le sempre mutevoli forme, con un che di allucinato e di onirico, ma anche di calmo, di serafico, di distaccato – che farà dire a Raffaele Carrieri che “una vivida, spettrale luce si leva dai grovigli di foglie e spine, una specie di fuoco bianco che dà alle sue composizioni agresti un che di magico e solitario”, e a Leonardo Sciascia che quella di Cazzaniga “sembra una pittura di tutto riposo, di tutta quiete. E invece in essa solitamente trascorre l’inquietudine, l’ossessione, la follia”, al punto da portare lo spettatore a provare “una certa ansia, una certa angoscia” di fronte “ai suoi alberi, ai suoi gusci, alle sue conchiglie”. Alberi, gusci, conchiglie e fiori, che Cazzaniga ritrarrà, per tutta la vita, con la verve, l’eccitazione e il ritmo con cui aveva ritratto i suoi celebri suonatori di jazz, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Un ritmo febbrile, inesauribile, che lo accompagnerà lungo tutta la vita, qualunque sarà il soggetto che si troverà a dipingere, e anche quando il soggetto stesso potrà rischiare di svanire, immerso in una concitata congerie di toni, segni e colori.

Giancarlo Cazzaniga, Ginestre al Conero.
Giancarlo Cazzaniga, Ginestre al Conero.

“Cazzaniga è un figurativo o un neoinformale?”, si chiede Carlo Arturo Quintavalle, per poi rispondersi che in fondo è “assurdo rispondere”, dal momento che ”le sue opere sono sempre da situare fra due poli, di violento analitico scavo del ‘reale’ e di distaccata, sublime contemplazione. Il diapason dei suo sentimenti lo cogli nelle tensioni di fronte al singolo oggetto, al frammento, al cespuglio che si anima oppure alla conchiglia che non sai mai se è fossile o vivente, così che lo spazio della sua ricerca sta nell’evocazione, nella memoria che è insieme di luoghi, di sentimenti e di oggetti”.

E forse, la forza della sua pittura è stata proprio quella di cogliere, da quella breve ma intensa esperienza di realismo esistenziale milanese, la capacità di immedesimarsi non solo nell’uomo, nei suoi travagli, nei suoi drammi interiori e  nelle sue eterne contraddizioni, ma anche negli oggetti che lo circondano, e finanche nella stessa natura: coi suoi fiori, i suoi sassi, i suoi scampoli di paesaggio, che, ripresi quasi sempre a distanza ravvicinata, altro non rappresentano, in fondo, che scampoli d’una umanità che riflette in eterno su se stessa, sul proprio essere, solitaria, nel mondo, e sull’ambiente in cui vive.

Alessandro Riva