di Ada Masoero
Era il 1960 quando in una Milano ancora ferita dalla guerra si inaugurava il grattacielo progettato da Gio Ponti per Pirelli. Due anni prima lo Studio BBPR aveva consegnato la Torre Velasca, un altro segno architettonico potente, con quella citazione degli sporti medievali tradotti nel linguaggio della modernità, destinato diventare anch’esso un simbolo della città che rinasceva. Erano gli anni del boom, e mentre l’economia ripartiva con una forza inaspettata la città viveva una stagione artistica irripetibile, sotto il segno di Lucio Fontana e del gruppo di artisti, non solo italiani, che ruotavano intorno a lui. Con i suoi centoventisette metri il grattacielo Pirelli fu il primo edificio milanese a superare in altezza il Duomo da quando, nel 1774, la Madonnina fu issata sulla sommità della guglia maggiore. Fino ad allora, per rispetto verso quel simbolo religioso (non meno che per la natura del sottosuolo milanese, che è sedimentario e attraversato per di più da una falda freatica superficiale), nessuno aveva osato infrangere quel tacito divieto. Così la torre di Gio Ponti, frutto della sua genialità e delle nuove tecnologie che avevano enormemente potenziato le tecniche costruttive, diventò immediatamente l’emblema di una nuova età fiduciosa nel progresso e ricca di un propulsivo “ottimismo della ragione”: una sorta di cattedrale laica dalla potente valenza simbolica. Evidentemente però il grattacielo non avrebbe potuto acquisire né lo status di capolavoro che gli è riconosciuto in tutto il mondo, né la potenza iconica che da sempre sprigiona, senza la straordinaria qualità estetica che Gio Ponti seppe conferirgli, facendone una sorta di monolite limpido e concluso in se stesso, come fosse un cristallo di quarzo in cui luce e volume coincidono in un’unica abbagliante entità.
Da allora, più nulla di simile si sarebbe visto in città. Fino ai primi anni del nuovo secolo, quando hanno preso il via i cantieri di Porta Nuova-Garibaldi e dell’ex-Fiera CityLife, irti di nuove torri concepite anch’esse – non a caso – negli anni ottimisti e propulsivi del cambio di secolo (e di millennio), e poi cresciute a dispetto di tutto, quasi come una sfida lanciata alla crisi globale. Così il profilo della città, rimasto per secoli fortemente orizzontale, si è improvvisamente impennato e con un deciso moto ascendente ha mutato radicalmente la propria immagine.
Non stupisce che un artista come Alessandro Busci, da sempre innamorato di Milano e dei suoi incerti confini (è la città di Boccioni e Sironi, e delle loro “periferie”) e affascinato dalle architetture urbane, abbia registrato tale mutamento epocale e abbia fatto di queste costruzioni l’oggetto dei suoi nuovi lavori, insieme al grattacielo Pirelli, alla Torre Velasca e perfino all’esile Torre Branca, nel Parco Sempione, da lui più che legittimamente riconosciuti come loro diretti ascendenti. Accanto a questi colossi ha incluso altri segni architettonici nuovi – non così emergenti nel profilo urbano ma non meno incisivi sul piano urbanistico e funzionale – come i nuovi edifici dell’università Bocconi o la recuperata area archeoindustriale dell’ex TIBB (Tecnomasio Italiano Brown Boveri) al vecchio scalo di Porta Romana, e alcuni scorci di metropoli internazionali, da Londra a New York, che ritrovano la verticalità.
Con questo ciclo di lavori recentissimi, Busci compie uno scarto netto rispetto alla sua produzione precedente, sviluppando un tema che aveva abbozzato in alcune opere della mostra del 2012-13 ideata da Flavio Caroli per il Maga di Gallarate: fino ad allora infatti i suoi ritratti metropolitani, fatti di livide strade di periferia, di stazioni di servizio deserte, di piste di aeroporto bagnate dalla pioggia, di larghe cataste di container, di svincoli autostradali, avevano un andamento piatto e orizzontale. E da un punto di vista urbanistico erano dei vuoti urbani: più ancora che non-luoghi alla Marc Augè, dei terrains vagues, degli spazi “in attesa”, dei luoghi interstiziali in cui qualcosa sembra dover accadere.
Unici segni verticali in quei paesaggi erano i rari lampioni e qualche ciminiera di schietta ascendenza sironiana (spesso mediata dalla lezione di Aldo Rossi): tracce sottili di verticalità in un universo di uniforme piattezza, fatto di terra fradicia dopo il temporale, e di cieli arancione in aeroporti alla Ridley Scott. Oggi invece i suoi dipinti sono occupati da queste architetture dense, solide e “piene”, proiettate imperiosamente verso l’alto. La mutazione genetica che ha interessato la sua città ha indotto Busci ad alzare lo sguardo e a delineare questi nuovi paesaggi verticali. Che hanno dettato, in modo consequenziale, anche nuovi formati e una nuova tecnica pittorica. I formati verticali, infatti, sono stati finora raramente praticati e le lastre di cor-ten su cui si posa la sua pittura non sono più lavorate, come in passato, in orizzontale – a terra o su un tavolo –, con grandi quantità di colore e acido che lentamente agiscono sul metallo alterandone e ossidandone la superficie, ma sono ora dipinte in verticale: i colori, più o meno diluiti ma posati sempre con generosità sul supporto metallico, generano così colature, scie, rivoli, che ruscellano verso il basso e che accentuano la verticalità della composizione, conferendo al contempo agli edifici un aspetto “liquefatto”, da apparizione.
Perché se è vero che la passione di Alessandro Busci per la città e per i suoi edifici gli deriva dalla formazione di architetto, è però ben più vero che le sue sono tutto fuorché “vedute” urbane. Nulla a che vedere con le immagini esatte e lenticolari del vedutismo classico e dei suoi seguaci odierni. Quelle di Busci non sono mai vedute: sono visioni. E rivelazioni.
La città e le sue architetture sono per lui il pretesto per un’indagine mentale, visiva ed emozionale insieme, che diventa matrice ed elemento generatore di sequenze di dipinti capaci di portare alla luce gli innumerevoli significati simbolici ed emotivi di cui questi edifici tanto imponenti sono inevitabilmente impregnati. E se la Torre Velasca, il grattacielo Pirelli o la nuova torre UniCredit sono ritratti da Busci più e più volte, in ore diverse della giornata (ma sempre dal pomeriggio in poi) e in condizioni atmosferiche differenti, non è certo per coglierne la diversa vibrazione ottico-retinica, come accadeva nell’Impressionismo, ma per trascrivere le sempre nuove emozioni che il mutare della luce gli suggerisce.
La luce, dunque, e il suo dono di smaterializzare i volumi. Non a caso uno dei punti di riferimento costanti di Busci è Edward Hopper. E non tanto per l’iconografia metropolitana che li accomuna, quanto piuttosto per l’uso della luce, di cui l’artista americano si serve come di una lama che taglia volumi e superfici alterandone la percezione. In Hopper l’esito è quello di una lucidità perfino inquietante, in Busci, al contrario, la luce diventa un elemento corrosivo che “fonde” la solidità dei volumi. Ma per entrambi è lo strumento principe per alterare la realtà, portandola in uno spazio e in un luogo “altro”.
Entra qui in gioco un secondo e ben più inatteso referente, il maestro del cinema d’animazione giapponese Hayao Miyazaki, vincitore del Leone d’Oro alla carriera al Festival cinematografico di Venezia del 2005 e dell’Oscar nel 2003 con il film La città incantata,in cui, ci dice Busci, c’è la scena fantastica di un tram al tramonto che “buca” il tempo e lo spazio, penetrando in un diverso – e certo più poetico – universo. Forse lo stesso in cui vivono i suoi edifici. Perché l’artista giapponese sia diventato per lui un maestro è Busci stesso a spiegarlo evocando il fascino esercitato dallo “sfondo pittorico definito e chiaroscurale dei disegni animati di Miyazaki (così come dei classici Disney). Su quello sfondo vengono sovrapposti i lucidi dei personaggi e dei soggetti animati, che dunque sono, obbligatoriamente, a tinte piatte”. Un procedimento, aggiunge, che “mi ha sempre ricordato la mia preparazione del fondo della lastra e il prendere forma del soggetto a smalto monocromo, con un processo di sovrapposizione/integrazione”.
Che dire poi della fotografia di paesaggio italiana? Gabriele Basilico e, più ancora, Luigi Ghirri sono maestri ideali a cui l’artista guarda. E non solo per l’uso della luce e per il taglio compositivo delle immagini: quella di Basilico. per lui in primo luogo una lezione “di metodo, per quel suo analizzare una città con una continuità quasi ossessiva, proprio come accade a me”, mentre da Ghirri ricava “la capacità di leggere i suoi luoghi prosaici della Bassa padana, esaltandone al massimo grado l’aspetto magico, con uno sguardo che sa tradurre in poesia quella materia ordinaria, quotidiana”. Perché, riflette ad alta voce l’artista, “a un certo livello di tensione dell’immagine, non esiste nulla di più concettuale della figurazione”. E Busci assimila la lezione di entrambi per restituirla in una forma che è solo sua, con una luce trasformata in cascate che polverizzano la solidità dell’immagine e la trasfigurano fino a farne un’apparizione.
Torna alla mente un commento folgorante di Lucio Fontana, di ritorno dal viaggio a New York del 1961. Della città, che gli aveva ispirato il ciclo abbagliante dei Concetti spaziali–New York su rame o su alluminio, Fontana rammentava l’emozione suscitata in lui da quei “colossi di cristallo sui quali il sole batte, provocando torrenti di luce”. Torrenti di luce: è l’esatta sensazione che si avverte di fronte a opere come Pirelli, dove uno scroscio abbacinante scorre lungo le facciate in vetro del grattacielo, regalando qualche scintilla anche alla ruggine opaca e porosa del fondo. O come Unicredit oro azzurro, in cui l’architettura “acquea” del grattacielo vetrato di César Pelli, sfuggente e mobile come l’incavo di una grande onda, si trasforma in un barbaglio d’oro fuso che scorre dalla sommità del colosso verso il basamento, mentre la stessa materia della ruggine sulla lastra metallica di fondo riverbera la sontuosa luce ambrata. Come dice Flavio Caroli, Luce. Materia. Emozioni della e nella materia. Colori. Colori che fanno corpo con la luce”. Ciò che è singolare è che il sortilegio di luce accada grazie alla ruggine, frutto di un processo quasi alchemico che Busci guida con i tempi di posa e la concentrazione degli acidi, ma che in molta parte sfugge al suo controllo, per dar vita sulla lastra metallica a chiazze di ossidazione capaci di generare una luce tanto preziosa.
Nella gran parte dei dipinti recenti Busci fa largo uso, per la prima volta, dell’azzurro, dell’indaco e del blu: pigmenti visti per caso in un colorificio e acquistati d’impulso, in gran quantità, sebbene fosse ben consapevole di trovarsi di fronte a colori del tutto estranei alla sua gamma cromatica prediletta, che prevedeva in passato solo i rossi cupi, i gialli sporchi da nebbia metropolitana, i neri bituminosi, i grigi d’antracite, i bianchi oleosi. È stato, dice, un gesto immotivato: in realtà a posteriori pare di intuire che si sia trattato piuttosto di una sfida che ha voluto raccogliere, tanto da servirsi dell’azzurro puro e dell’indaco nel modo più ovvio e al tempo stesso più rischioso: per dipingere i cieli. Il che conferma la sua raggiunta consapevolezza e maturità d’artista. Nulla di mimetico, ovviamente: Empire rugginelo prova in modo lampante, fatto com’è di sola ruggine, più o meno luminosa per effetto del diverso grado di aggressione degli acidi, e di una chiazza di pigmento puro color indaco. Che per la sua complementarietà ai bruni della ruggine acquisisce una luminosità tersa e abbagliante.
La forza dei lavori di Busci non cambia al variare delle superficie dipinta. Accanto alle opere su cor-ten ci sono lavori a smalto su lastra di rame – gli ultimissimi, fra i quali un omaggio ad Aldo Rossi –, un grande dipinto monocromo su seta, con la Torre Branca minacciata da una nera tromba d’acqua (una delle “apocalissi metropolitane” così amate da Alessandro Mendini), e i bellissimi lavori su carta. È singolare la facilità con cui Busci sa passare da un supporto pesante, rigido e impermeabile come il metallo, a uno leggero, accogliente e poroso come la carta, per la quale si serve di pennelli larghi e piatti, da calligrafo estremo-orientale, che per loro natura impongono un’inclinazione particolare alla mano. Ancora una volta sceglie una tecnica che in qualche modo lo “imprigiona”, lo vincola duramente, come se fosse in cerca di una nuova sfida da superare. Se nella pittura su ferro è il supporto, con le sue ruggini e le sue ossidazioni solo in parte controllabili, a dettare molta parte del processo pittorico, qui è il pennello, utilizzato di punta e carico di colore che viene rilasciato in quantità differenti a seconda della pressione, a condizionare la mano. Ne scaturisce un segno abbreviato, stenografico (come nel Bosco verticale o nel turbinoso Unicredit), simile a quello della pittura cinese antica, che smaterializza la mole degli edifici rendendoli più che mai “apparizioni”, immagini fantasmatiche svincolate da ogni volontà di verosimiglianza, cariche di una valenza emozionale che regala loro lo statuto di opere autonome.
Le carte di Busci, dipinte in modo immediato senza alcun disegno a grafite, non sono né bozzetti né tanto meno disegni preparatori ma vere opere pittoriche la cui dignità non è certo inferiore a quella delle più corpose lastre metalliche. Questi lavori scaturiscono da una sofisticata riflessione sulla tecnica pittorica dei dipinti giapponesi a china, ai quali Busci guarda da sempre: la loro lezione è evidentissima nella china Aeroporto, dove il bianco del supporto, appena “sporcato” dall’inchiostro più o meno diluito, domina la composizione, e lo è anche nella più che sironiana Triennale, con quel bianco lasciato in riserva su cui si aprono le arcate a china. In esse l’artista mostra di aver esplorato a fondo la tecnica giapponese che si avvale del bianco della carta per rendere i vuoti della composizione, e di sapersene servire come di uno strumento capace di sostituire le leggi prospettiche della tradizione occidentale nella resa delle distanze e dell’infinito: un processo rischioso che non ammette errori né ripensamenti ma che conferisce a questi lavori su carta la fugace volatilità di un giorno di vento.
Alessandro Busci | In alto Milano
Triennale di Milano
Viale Alemagna 6
14 – 30 novembre 2014Catalogo: Johan & Levi
Info: T. +39.02.72434208