di Stefano Antonelli
Da tre mesi Blu sta lavorando a questo spettacolare dipinto murale a Roma. Lo sta realizzando appeso a delle corde in forma del tutto autonoma e indipendente. E si rimane sbalorditi dalla visione di cosa può fare un uomo solo. L’edificio si trova al centro di un quartiere popolare di Roma Est, è sede di un’occupazione abitativa, tuttavia è stato a lungo la sede del commissariato di Pubblica Sicurezza. Da tempo l’artista di Senigallia ha scelto di collocare i suoi lavori a presidio di istanze sociali, di non operare nel mercato e di disappartenere al mondo e al sistema dell’arte, al punto che isuo agire è oramai ascrivibile esclusivamente al politico. Blu si interessa a luoghi non amministrati, ne riflette la componente emotiva, ne intercetta e interessa la medialità delle superfici per innescare processi di deflazione dell’immaginario. È critico, curatore, artista, filosofo e scalatore. È anche un Dio dell’arte e io ho assistito alla sua nascita al Pac di Milano un paio d’anni fa, ma questa è un’altra storia.
Blu è l’artista italiano più importante del nostro tempo, esploratore di libertà, indipendenza e possibilità, in un ambito – quello artistico contemporaneo – dove il paradigma dominante è l’impossibilita del “nuovo”, l’autocondanna alla ricorsività e quando si parla di arte, per “nuovo” si intende sempre e solo una cosa: uno spazio di libertà.
Per Hannah Arendt, la libertà si esprime come la capacità di dar vita a qualcosa di nuovo, qualcosa che, senza un gesto umano, non inizierebbe mai. Hannah Arendt si riferisce a quel gesto, a quell’azione, quel farecapace di rompere la routine di un mondo amministrato, quel gesto capace di introdurre qualcosa di imprevisto. Blu è l’autore di molti gesti “arendtiani”, primo fra tutti: mettere il pennello su un’asta. Potrà sembrarvi banale oggi, ma è stato lui il primo a sistematizzare questa pratica nella pittura contemporanea.
In questa nuova opera, ancora incompiuta per via della “pausa caldo” che si è preso l’artista, Blu sembra voler proporre una lettura simbolica della civiltà occidentale abbandonando le strutture a cui si è dedicato a lungo e mettendo al centro il soggetto. Per descrivere la civiltà occidentale usa solo tre colori: bianco, nero e oro. Il lavoro mostra un impianto classico già sperimentato sulla facciata dell’Ex Cinodromo di Roma, sede del centro sociale Acrobax. In quest’opera, le due grandi pareti laterali dell’edificio razionalista ospitano due nicchie, in quella di sinistra una Venere di Milo, nella sua forma consueta, indossa però una Chanel 2.55, cinta Gucci, buste di Versace, Gucci, Prada e Louis Vuitton. Al collo una collana d’oro bella ed elegante, non griffata ma evidentemente costosa. Ai piedi un barboncino taglio leoncino con collare e guinzaglio in catena d’oro en pendantcon la catena della borsa Chanel. A destra, la nicchia ospita invece un David di Michelangelo leggermente sovrappeso, che, catenone con crocifisso al collo, osserva un iPhone 8con custodia. Orologio e anello d’oro, tiene in mano una generica bottiglia di birra. Ai piedi la sentenza più grave: le Hogan. Il David parrebbe farsi un selfie: è una critica di costume? No: il selfieci parla di sorveglianza. Il carattere pervasivo che ha assunto la sorveglianza nei sistemi democratici ha dato luogo a questo fenomeno di auto-osservazione. Al posto della fionda David ha una bottiglia di birra, al posto del proiettile la telecamera di sorveglianza del potere. Simbolismo della condizione, soggetti re-informati da oggetti.
I due elementi principali della composizione sono due immagini simbolodella cultura occidentale e della sua continuità con la cultura classica. La Venere è una statua attribuita ad Alessandro d’Antiochia che si trova al Louvre. Venne ritrovata da un contadino nell’isola di Milo in Grecia nel 1820, sequestrata dai turchi e comprata dai francesi per il Louvre, il grande laboratorio dove è stata sintetizzata la superiorità culturale occidentale. È un simbolo di bellezza greca, dove in origine “bello” voleva dire “buono”. Il David invece si trova a Firenze, scolpito da Michelangelo Buonarroti su commissione della Repubblica Fiorentina quando i Medici furono cacciati da Firenze. Il David di Michelangelo non è un’opera per celebrare la bellezza, la bellezza in Michelangelo è uno strumento di seduzione dello sguardo, il David del Buonarroti è un protester, è un giovane con una fionda in mano e un proiettile nell’altra, come i ragazzi di Gaza. Il David di Michelangelo è un giovane armato per difendere la Repubblica, lo Stato, quello di Blu per difendere se stesso. Il primo David proietta l’esteriorità del corpo sul nemico, il secondo proietta l’interiorità degli oggetti sul suo stesso corpo, indicandoci così chi è il nemico. L’artista sostituisce il proiettile nella mano destra con una bottiglia di birra e la fionda nella mano sinistra con la telecamera di sorveglianza del potere.
E Michelangelo è in risonanza con Blu perché è con Michelangelo che l’artista diventa quello che conosciamo oggi, una “star” popolare, un essere superiore agli uomini proprio come il divino Blu che star popolare è, proprio in forza del suo talento e ancor di più in forza della sua volontà di sottrarsi a questo statususando la contemporaneità con un paradigma culinario: q.b., quanto basta, e su questo ritaglio di necessità dispiegare le sue geometrie del pensiero. Ma questi sono tempi complessi, nel progetto incompiuto della modernità vige la regola – allo stesso tempo etica ed estetica – del paradosso e della contraddizione e in questi casi per cercare la verità occorre intercettare il suo opposto o la sua hyperbolé, il suo eccesso. In questa prospettiva Blu genera un doppio movimento, verso l’alto con le sue sole forze per far toccare all’impresa della pittura altezze vertiginose e allo stesso tempo verso il basso, portando il suo lavoro nel tempo mai opportuno degli ultimi e dei bisognosi.
Nel selezionare queste immagini, Blu opera una scelta precisa sulla quale costruisce un détournementmanipolandone le forme a aggiungendo elementi, oppure, come direbbe Nicolas Burriaud, operando una “post-produzione”, creando un oggetto informato da un altro oggetto. Tuttavia il risultato non è nuovo, artisti come Banksy con la sua Happy Shopperoppure Ozmo con il suo San Sebastianohanno lavorato sulla stessa idea, e dunque l’immagine potrebbe apparire semplice o anche banale, o semplicemente già vista. Attenzione però, perché il punto è proprio questo.
Come ci suggerisce Boris Groys (Art Power, Postmedia Book, 2012), “il pubblico oggi trae le sue nozioni sull’arte dalla pubblicità, dai video di MTV, dai videogiochi e dai film hollywoodiani”, mentre “la crescente estetizzazione della politica offre allo stesso tempo la possibilità di analizzare e criticare le performance politiche in termini artistici”, ovvero la politica guidata dai media opera, in definitiva, nel campo dell’arte. Con quale mezzo opera dunque la politica oggi? Con le immagini. E chi le produce? L’industria culturale. Già Adorno e Horkeimer ci avevano informato del problema, nella Dialettica dell’illuminismoci mettono in guardia da quell’industria che avrebbe ridotto la cultura in merce.
E proprio a questa sistematica riduzione della cultura in merce sembra opporsi l’intera opera di questo artista. L’industria culturale è un enorme “transformer” che genera inflazione dell’immaginario attraverso un flusso continuo di immagini artificiali in diretta competizione con la produzione di immagini artigianali, quelle degli artisti, gli ultimi artigiani del presente. Se oggi la vita associata è in fin dei conti uno stato per soddisfare i bisogni, un’industria per fabbricare desideri e un mercato per soddisfarli, Blu sembra lavorare per deindustrializzare desideri, illusioni, sogni, e futuro. Si rintracciano queste istanze dell’agire di Blu, produrre immagini attive e militanti in grado di resistere, sovvertire, confondere, distogliere se non invertire il flusso industriale. Immagini semplici, come un bambina che lascia andare un palloncino a forma di cuore (Banksy), o un David sovrappeso involgarito dall’oro (Blu), saranno capaci di farsi strada nella corteccia prefrontale della collettività e sostituire l’immagine industriale? Non lo sappiamo, o forse sì, tuttavia, come sostiene Foulcault, “ripetere è dimostrare”.
A quest’opera si può approcciarsi in due modi: recandosi dove si trova, al Quarticciolo, oppure vedendola riprodotta in un’immagine. Io mi sono portato dinanzi all’opera: la prima opzione è un sorriso: la verità di questo lavoro di Blu è avvolgente. La seconda opzione, la sua riproduzione, è imprevedibile, epistemologia da nuovi media. Osservare l’arte richiede sempre più una dotazione prospettica in grado di scomporre e ricomporre le grammatiche, le sintassi e le semantiche frammentate del dialogo tra l’arte e il mondo.
Se guardassimo il lavoro di Blu dalla prospettiva di Elias Canetti, ogni opera di Blu sembra avere il potere di staccare una “spina del comando”, a noi e a lui stesso. Ogni opera di Blu sembra voler liberare una muta di caccia, una muta di guerra, una muta del lamento, una muta di accrescimento. Di nuovo a presidiare una rivendicazione forte, un’altra occupazione diventa un supporto per spostare l’attenzione dalle strutture ai soggetti, per aggiungere materiale a una letteratura che a Roma potete leggere sui muri, tra gli atri, dell’Ex Caserma Aeronautica di via del Porto Fluviale, dell’Ex Cinodromo, dell’Alexis di via Ostiense. Scritti politici, di impegno e testimonianza radicale che ci restituiscono, gratuitamente, un repertorio di immagini e opere straordinarie radicate nelle strutture per far resistere i soggetti.
Noi, che pur testimoniamo e sosteniamo l’impegno politico di Blu, non ce la sentiamo tuttavia di alienare il suo agire dall’essere un “artista”: l’arte è sempre politica. Colpisce un giovane che con la sola forza del corpo riesce ad ottenere parità dialettica con il potere, con ogni potere. Per questo non riusciamo a non pensare a Michelangelo guardando cosa sta facendo questo artista irrudicibilmente solitario e radicale.
Stefano Antonelli