di Alessandro Riva
Tra padiglioni sciamanici e dionisiaci, percorsi simbolici attraverso la propria terra, danze planetarie, esercizi di ricamo e vibrazioni sonore, la 57 Biennale di Venezia, curata da Christine Macel, sta facendo il pieno di visitatori (solo nelle prime tre settimane, i visitatori sono stati oltre 60 mila, con un incremento dell’ordine del 23% rispetto all’edizione precedente). Merito, forse, anche del fatto che questa edizione ha abbandonato concettualismi, formalismi, astrusità sociologiche e pratiche iper-elitarie, per ritrovare un legame profondo e quasi salvifico con l’inconscio, con la memoria e con la storia. Lasciando anche un po’ da parte la politica, protagonista un po’ forzata dell’edizione precedente, quella diretta da Okwui Enwezor (benché la curatrice ribadisca invece la possibilità di affrontare temi politici in maniera meno letterale e più simbolica, ma restando sempre nell’ambito della politica. “Pur senza voler mettere in risalto la politica”, dice infatti Christine Macel, “ho scelto con gli artisti dei progetti che si inserissero in una visione artistica deliberatamente legata alla politica, come nel caso di Sam Lewitt che pone la questione della produzione d’energia elettrica con la società Enel o, in maniera più evidente, di Olafur Eliasson col suo progetto che coinvolgeva i migranti presenti in Veneto, o ancora con il lavoro della giovane Thu Van Tran, molto colorato, in apparenza molto gioioso, ma che evoca la rivolta e la repressione di una piccola città vietnamita produttrice dell’albero della gomma, sfruttata dalla Michelin”).
Nonostante la volontà della curatrice di non recedere dall’avere e dare (anche) una visione politica del mondo, è però indubbio, a nostro parere, che questa edizione della Biennale si concentri soprattutto sul ritorno di un profondo senso del rito e della ritualità: ritualità del lavoro, delle tradizioni, dell’opera, del corpo, della voce, del suono. È l’arte di oggi, l’arte viva e non quella di moda o di facciata, che è tornata a scavare (finalmente) nel cuore pulsante dell’inconscio del nostro presente, nel quale sono annidati i miti fondativi di ciò che noi chiamiamo il “contemporaneo”.
Ecco allora che le opere stesse, se viste dal punto di vista del ritorno a una profonda forma di ritualità, assumono altro aspetto, più profondo e radicato nel nostro inconscio. Riti di tessitura e di cucitura, riti di relazione, di riflessione, di cura, riti di costruzione manuale – anche in forma collettiva (vedi il laboratorio messo in piedi da Olafur Eliasson, ma anche le tante performance partecipative e collettive, nonché gli stessi “pranzi con gli artisti”, sorta di rito di ricostruzione del senso dello stare insieme, condividendo idee, progetti e saperi, tipici della creazione artistica autentica e non mercificata); e poi riti musicali, riti di costruzione e di ri-costruzione, di manualità, di fabbricazione di feticci e di manufatti oggi dimenticati; e ancora riti di sepoltura, di decorazione, di guarigione, di ricamo, di raccolta, di accumulazione, di memorizzazione, di cibo, di lettura. E, soprattutto, riti di riscoperta di sé, del sé più autentico e profondo: come interpretare, altrimenti, il potere potentemente salvifico e rituale di uno dei tanti sotto-padiglioni, o trans-padiglioni, di cui è composta la mostra, il bellissimo Padiglione Sciamanico, nel quale il brasiliano Ernesto Neto ha riallestito una capanna cerimoniale, dove ristorarsi e provare a ritrovare se stessi e il proprio rapporto con la natura e con la terra-madre, con tanto di canti sciamanici di guarigione, quasi ci si trovasse di fronte a una sorta di riscoperta dell’antico “ruolo magico” dell’arte? “Io non penso che questo tipo di arte giochi un ruolo magico”, dice Christine Macel, “ma che si basi su un desiderio umano di trascendere il reale attraverso l’arte, di conferirgli un potere di trasformazionecome altri hanno potuto attribuirle un ruolo rivoluzionario”.
Quel che è certo, è che complessivamente questa è, a parere del nostro giornale, una delle più interessanti edizioni degli ultimi anni, per lo meno nella sue due mostre principali, quella del padiglione centrale dei Giardini e dell’Arsenale. Ciò a cui si assiste visitando le due mostre è infatti un percorso insieme sensibile e profondo, delicato e sorprendente, a tratti leggero e scanzonato e a tratti corrosivo, emozionante, vivificante. Non è la solita sfilata di nomi noti e arcinoti: anzi. Molti, moltissimi sono gli artisti semisconosciuti, dimenticati, provenienti da paesi tutt’altro che centrali nella mappa geopolitica del mondo. Ci sono le danze planetarie di Anna Halprin e le tessiture di Maria Lai, gli abiti trasformati in feticci della propria intimità segreta e della propria identità di Heidi Bucher e le “vibrazioni narrative” di Kader Attia, le misteriose e poetiche falene in stoffa di Petrit Halilai e gli straordinari e sorprendenti strumenti musicali di Rina Banerejee e le incredibili sculture neobarocche di Yee Sookyung, che riunisce simbolicamente pezzi di ceramiche andate in frantumi attraverso la tecnica giapponese del kintsugi (che rende preziosamente decorativa, con l’utilizzo dell’oro, la colla utilizzata per “cucire” le ferite dei singoli pezzi di ceramica).
E poi, gli abiti, portati dai visitatori, “rattoppati” simbolicamente dal taiwanese Lee Mingwey, come elemento di unione spirituale tra gli uomini, e le costruzioni collettive di David Medalla, basate sul ricamo di gruppo spontaneo e collettivo da parte dei visitatori; i bellissimi e misteriosi reperti artistici (oggetti, vasi, tappeti ed elementi naturali mescolati con manufatti umani come suppellettili e arredi delle antiche “case delle fate” della tradizione sarda) di Michele Ciacciofera e gli altrettanto misteriosi reperti di una ucronica “archeologia del futuro” del francese Michel Blazy (vasi dalla forma di scarpe da ginnastica che contengono florida vegetazione, vecchie riviste che cambiano forma e conformazione a causa di una goccia d’acqua che le incide minuto dopo minuto).
E ancora: i bizzarri funamboli, degni di una pellicola postsurrealista, del russo Taus Makhacheva, che trasportano da una cima all’altra di un monte capolavori della pittura classica, come in un rito antico e misterioso, e le pelli artificiali di Achraf Touloub; gli uomini-feticcio di Francis Upritchard e le corone funebri fantastiche e surreali di Irina Korina; i fantastici paesaggi della pittura tradizionale cinese rivisitati da Hiao Liang e le giganti accumulazioni di diari di Abdullah Al Saadi; le sorprendenti incisioni sovrapposte del rumeno Ciprian Muresan e i seducenti intrecci tessili di Sheila Hicks; e ancora, ancora, accumulazioni di oggetti come contenitori di storie e di memorie, esercizi di cacciata degli spiriti, rievocazione di antichi miti funerari, e poi alberi di gomma, misteriose pelli artificiali, bandiere in lana troppo pesanti da sventolare, monaci, animali, sculture-assemblaggi di stoffe, di carte, di ceramiche, di sassi, di ferri, di lana…
Una Biennale volutamente non rivoluzionaria, ma potente nella sua forza sotterranea. Ordinata e composta, ma gioiosa, vitale, ricca di esperienze, di colori, di forme, di azioni, di suggestioni, di idee; ordinata, sì, anche se “troppo ordinata”, è stato scritto. Ma “non dimentichiamo”, dice ancora Christine Macel, “che l’arte ha a che fare con l’ordine e con la rappresentazione, se cambia il mondo è perché ci permette di capirlo, di reinventarlo, perché ci offre un’alternativa, perché ci permette di vivere una vita ben più interessante dell’arte, come diceva Robert Filliou”. Già, proprio Filiou, l’artista Fluxus francese, che concepiva l’arte come dimensione di partecipazione e di creazione attraverso il coinvolgimento e l’azione collettiva, al di là delle convenzioni del sistema artistico, che diceva appunto che “l’art est ce qui rend la vie plus intéressante que l’art”, diceva anche di non essere affatto interessato all’arte, “ma alla società della quale l’arte è un aspetto. Sono interessato al mondo come a un tutto, un tutto del quale la società è una parte. Sono interessato all’universo del quale il mondo è un frammento. Sono anzitutto interessato alla Creazione costante della quale l’universo è soltanto un prodotto”. E celebrare la potenza di questa Creazione costante attraverso la dimensione profonda e sotterranea delle mille produzioni autentiche, simboliche, rituali create dagli artisti è uno dei privilegi a cui a volte ci capita di assistere.