
In un’intervista di qualche tempo fa, Bernardo Siciliano raccontava di aver iniziato a dipingere quando aveva 12 anni. “Lo facevo guardando dalle finestre della mia stanza nella campagna di Todi. Anche a Roma, dipingevo sempre quel che vedevo dalle finestre di casa mia, ai Parioli. Poi sono passato alle finestre del mio studio. Quindi ho cominciato a cambiare molti studi, e man mano che cambiava il paesaggio dalle finestre dei miei studi cambiavano anche i miei quadri. Poi a un certo punto ho cominciato a farlo in maniera più scientifica, prendevo un blocchetto e andavo in giro e disegnavo quello che mi interessava dipingere, facendo una serie molto complessa di studi preparatori”. La sua formazione, dunque, è stata quella di un pittore di paesaggi, influenzato (sarà sempre lui a raccontarlo) dalle vedute degli artisti della Scuola Romana, di Pirandello, Mafai, Donghi. “Vivevo in questa specie di Arcadia che era il mondo intellettuale romano che girava in casa, mi imbevevo di libri, di cataloghi d’arte… i cataloghi mi davano un’eccitazione unica, ne divoravo a centinaia, erano una vera libidine per me… il mondo dell’arte contemporanea l’ho conosciuto molto dopo”.
Figlio di Enzo Siciliano, uno dei grandi intellettuali italiani, scrittore e critico letterario amico e sodale di Pasolini e Moravia, Bernardo è cresciuto “imbevuto di libri” e della pittura degli anni Venti e Trenta. E i toni, le atmosfere e i colori di quella scuola pittorica gli sono rimasti indubbiamente cuciti addosso. Da giovane artista, negli anni Ottanta e Novanta, Bernardo scopre prima il piacere di dipingere la luce del paesaggio urbano romano, poi, con il trasferimento a New York, scopre un’altra luce e altre strutture architettoniche. Al contempo, però, non abbandona un altro genere a lui caro: quello del ritratto, o meglio del lavoro sulla figura umana, scevro da complicazioni psicologico-biografiche o peggio agiografiche. “Non considero il ritratto uno dei tanti ‘generi’ della pittura”, ha detto ancora l’artista; “per qualche tempo l’ho vissuto piuttosto come una necessità: credevo fosse il fondamento stesso del dipingere”.

Il suo lavoro, nel corso degli anni, si concentra così sempre più intorno ai due generi maggiori della tradizione pittorica classica – il paesaggio e il ritratto -, scevro però da alcun genere di volontà citazionistica o di nostalgia passatista. Anzi. Col passare del tempo, il suo stesso stile si depura di retaggi e di riferimenti e alla tradizione novecentesca, del quale era permeato nei primi anni, per trovare una sua orginalità e una sua sempre maggiore nitidezza. E anche i riferimenti e le lezioni stilistiche si moltiplicano. Dal Novecento italiano il suo sguardo si sposta all’Europa, e alle nuove esperienze della pittura americana contemporanea.
Del resto, per Siciliano, la spinta decisiva verso la raffigurazione della figura umana era derivata dall’amore per uno dei più grandi pittori del Novecento europeo, Francis Bacon; che, racconterà, gli fece prendere coscienza della necessità di affrontare la figura umana non come mera indagine formale o psicologica sul volto o sul corpo di una singola persona, ma come simbolo dell’intera condizione umana: “dipingere l’uomo”, dirà, “significava prendere di petto, senza nessuna scorciatoia, quello che mi sembrava essere il nucleo reale dell’esistenza, quindi dell’arte”. E difatti, proprio la figura umana, mescolata a scorci di paesaggio newyorchese, è stata al centro di una delle sue mostre più importanti, “Nude City”, tenutasi al Macro Testaccio, a Roma, nel 2010. Oggi Siciliano torna a esporre, prima a New York (ottobre 2013) quindi, dal 9 novembre 2013 all’11 gennaio 2014, a Palazzo Te di Mantova.
La mostra, curata da Michele Bonuomo, alterna, ancora una volta, le classiche vedute di New York, con ritratti intimi e famigliari (e alcuni autoritratti) che si spingono fino a un realismo sempre più lucido, chirurgico e spietato, senza tuttavia concedere nulla al fotografico o al “mediale”, imbevuti come sono di retaggi che sono solo e unicamente pittorici. La figura umana, sola sulla scena della pittura, campeggia così, senza infingimenti né artifizi retorici, nella sua cruda essenza di visione necessaria ed estrema: quasi fosse l’ultima possibile visione del reale, di fronte all’incedere invadente e ambiguo dell’immagine fotografica e mediale.
A.R.



