di Alessandro Riva
“Che posto incredibile!” – e vai con un selfie, un salto, una corsa, uno spettacolo di giocoleria. Già, peccato che quel posto incredibile, composto da 2.711 blocchi di calcestruzzo grigio di forma quadrangolare, disposti secondo una griglia ortogonale di diversa altezza, altro non sia che il Memoriale della Shoah, in pieno centro a Berlino, a due passi da dove un tempo sorgeva il centro politico del Terzo Reich. Insomma, non un gioioso parco pubblico, o il muretto di una piazzetta, o una pista da skate, su cui è naturale divertirsi, scorrazzare, correre, giocare e, oggi, naturalmente farsi selfie. Ma un luogo che, nelle intenzioni di chi l’ha progettato (l’architetto americano di origine ebraica Peter Eisenman) e di chi l’ha fatto costruire, vorrebbe ricordare l’inquietante e spaventosa sensazione di smarrimento di chi ha subìto, o visto altri subire, la persecuzione, la deportazione, la morte per mano nazista (da qui il percorso simil-labirintico e il senso di ossessiva e cupa ripetitività della struttura): smarrimento della ragione, del senso di umanità, dei più elementari sentimenti di empatia e di solidarietà verso il prossimo che sono alla base dell’orrore nazista e del delirante progetto dell’olocausto hitleriano.
Sta di fatto che oggi, in una perdita ormai totale e dilagante di consapevolezza nell’adeguare i propri comportamenti al luogo in cui ci si trova e nella fatale incapacità di capire il significato dei simboli che ci troviamo di fronte, una gran massa di persone – ragazzi e ragazze, ma anche molti adulti – affrontano il percorso all’interno del “labirinto della Shoah” con disarmante leggerezza. Chi si fa il selfie(il minimo sindacale dei comportamenti considerati “normali”, ormai, e non solo giovanili), chi ci si stravacca sopra, chi scherza, chi ride, chi fa ginnastica, chi fa il giocoliere, chi fa yoga, chi salta tra un blocco e l’altro, chi ci si arrampica sopra, chi fa acrobazie in maglietta e reggiseno… e via di questo passo.
Ora, benché questa sia la regola, è pur vero che chiunque ha in mente (e stretto nel cuore) il significato profondo di questo mausoleo si trova un po’ a disagio nel vedere la gazzarra comportamentale post-post-moderna (ma verrebbe da dire anche post-umana, per l’insulsaggine dei comportamenti individuali diventata prassi comune) invadere un luogo che dovrebbe ricordare uno dei peggiori genocidi della storia dell’umanità.
Ecco allora che un giovane artista, fotografo e scrittore satirico israeliano, il ventottenne Shahak Shapira, che dal 2002 vive in Germania, ha ideato un progetto che, pur improntato a una sorta di macabro humor nero, sembra togliere il velo alla realtà post-fattuale e post-umana: sostituendo al simbolo (il memoriale, con le sue anonime pietre grigie) il fatto in sé (l’orrore dello sterminio nazista, con i suoi milioni di morti e di corpi ammassati e martoriati dagli stenti e dalla fame). In che modo? Con un semplice tocco di photoshop.
“Rubando” le immagini di selfie e di ritratti acrobatici, sorridenti o stravaccati che gli ignari e inconsapevoli turisti (inconsapevoli nel vero senso della parola, poiché mostrano, poveretti, di mancare di qualsiasi consapevolezza etica, sociale ma anche interiore) si fanno sulle pietre del memoriale e che poi postano con leggerezza sui social, con tanto di hashtag e commenti come “what an incredible place”, “theobligatoryphoto” e persino, poveretti loro e il grado zero del loro pensiero ragionante, “Jumping on dead Jews”; prendendo, dunque, queste immagini, “rubandole” letteralmente dai profili social (pubblici) sui quali i loro autori le hanno allegramente postate, e sostituendovi poi le pietre grigie sulle quali costoro scorrazzano allegramente con le foto (vere) dei morti, anch’essi più che mai veri, dei campi di concentramento che quelle pietre vorrebbero ricordare. Il “fatto in sé”, appunto, al posto del suo semplice simbolo o simulacro artistico-architettonico.
Il risultato? Un osceno campionario di salti, lazzi, acrobazie, burle e sorrisi a cavalcioni di mucchi di poveri morti, per lo più ebrei, ammazzati neri campi di sterminio nazisti.
Il titolo del progetto è Yolocaust, cioè una sarcastica crasi tra Yolo, acronimo di “you only live once” (“si vive una volta sola”) e Olocausto. Le motivazioni alla base del progetto? Sdegno? Rabbia? Moralismo? Niente di tutto questo: più che altro, spiega il suo autore, “volevo scatenare una riflessione sul senso della memoria e su come viene trasmessa, mettere in discussione ciò che le persone fanno in un luogo come quello, ponendo l’attenzione sul modo in cui i giovani oggi si approcciano a un tema drammatico come quello dell’Olocausto, cercando di dare consapevolezza critica alla memoria della Shoah”.
Certamente il progetto, pur controverso e discusso, è interessante proprio per la sua radicalità e per il suo fortissimo impatto visivo. Il messaggio è chiaro e semplice: ti piace scherzare e giocare su un monumento che ricorda l’Olocausto? Sappi che stai scherzando e giocando con la sensibilità e la memoria di milioni di persone, i cui parenti sono stati segregati e hanno perso la vita nei campi di sterminio nazisti. Pur con immagini da pugno nello stomaco e un taglio molto provocatorio, insomma, Yolocaustmette in dito nella piaga sulla mancata o scarsa presa di coscienza da parte dell’intero popolo tedesco rispetto al proprio passato e alle proprie colpe storiche. Un dibattito non nato certo ieri, ma che ha attraversato l’intero dopoguerra; ma che oggi, con i nuovi slanci ultranazionalisti, le ventate xenofobe e razziste e l’aria di destra che si sta alzando da più parti nel mondo, torna straordinariamente attuale. Quanto potranno riuscire a recepire, infatti, è lecito chiedersi, i ragazzi di oggi, della tragedia dell’Olocausto e dei fenomeni economici, politici e sociali che hanno portato al compiersi di quella spaventosa esperienza storica, attanagliati come sono dalle attuali insicurezze economiche, dai sempre più massicci bombardamenti mediatici anti-immigrati, dagli allarmismi, le parole d’ordine xenofobe e razziste ripetute quotidianamente da trasmissioni-spazzatura e da partiti populisti interessati ad alzare sempre maggiormente la soglia della paura e dell’odio razziale?
Quel che è certo, è che Yolocaust non lascia e non ha lasciato indifferenti. Solamente nelle prime 24 ore, il sito ha avuto un milione e mezzo di visitatori e, se molti si sono espressi favorevolmente, non sono mancate le critiche: basti, fra tutti, proprio il parere dell’autore del Mausoleo, Peter Eisenman, che fin dall’inizio ha nutrito molti dubbi sul progetto di Shapira: “Per essere onesto, devo dire che l’ho trovato terribile”, ha detto. “Da sempre, le persone hanno saltato intorno a queste lastre, ci hanno preso il sole e hanno fatto il picnic: e per me va bene così”. “Un memoriale”, ha aggiunto, “è un luogo quotidiano, non un luogo sacro”, sottolineando anche che “non è un cimitero”, perché lì sotto “non ci sono sepolti dei morti”, e che dunque l’accostamento di Shapira tra le lastre del Mausoleo e i morti è “decisamente eccessivo”.
Ma Shapira la pensa diversamente. Benché estrema e a tinte forti, la sua è una satira feroce non solo contro la mancata presa di coscienza del popolo tedesco rispetto all’Olocausto, ma anche contro la superficialità (e spesso il cinismo) del turismo di massa, abituato a digerire tutto, a profanare tutto e a visitare tutto con leggerezza e senza alcun senso critico. Ma, soprattutto, è una satira contro il nuovo “vento oscurantista” (e razzista) che sta avviluppando molti paesi d’Europa, spaventati dalle sempre più massicce ondate migratorie provenienti dal sud e dall’est del mondo. E, se già nel 2015 Shapira (che da quando ha 14 anni vive con la madre nella regione di Sachsen-Anhalt, una roccaforte dell’NPD, partito di ultradestra dalle simpatie neonaziste e luogo di scontri e di intolleranze razziali), era salito agli onori della cronaca per essere stato aggredito nella metropolitana di Berlino per aver filmato dei cori antisemiti, oggi è sempre più impegnato contro il rinascere di tentazioni neonaziste in Germania. “Dedico Yolocaust”, ha scritto di recente sulla sua pagine Facebook, “al mio neonazista preferito, Björn Höcke”.
Per chi non lo sapesse, Höcke è uno degli esponenti di spicco dell’AfD, Alternative für Deutschland, partito della nuova destra tedesca, che ha fatto delle battaglie anti-euro e anti-immigrati la sua bandiera. Peccato che, al suo interno, la componente neonazista stia prendendo sempre più piede, e che Höcke la rappresenti bene, al punto che di recente, proprio parlando del Memoriale della Shoah, si sia espresso in termini che tutti hanno giudicato inaccettabili: “I tedeschi sono l’unico popolo al mondo capace di piazzare un monumento della vergogna nel cuore della propria capitale”, ha detto, augurandosi un “cambiamento di 180 gradi” nella politica della memoria dell’Olocausto.
Finché gente come Höcke avrà un minimo di seguito, progetti come Yolocaust non saranno mai inutili. Forse, proprio in virtù della loro scioccante forza visiva, i ragazzi e le ragazze che fino a ieri saltellavano inconsapevolmente sul Memoriale della Shoah proveranno un po’ di imbarazzo, un po’ di vergogna, e andranno a studiare come diavolo è potuto succedere che un intero popolo, appena una manciata d’anni fa, venisse soggiogato dalla mania delirante di uno psicotico criminale come Hitler, prendendo coscienza del fatto che l’intolleranza, l’odio, l’antisemitismo, il disprezzo per lo straniero e la megalomania nazionalista sono un tragico retaggio del passato che non deve mai più tornare.
Milano, 27 gennaio 2017