di Michael Peppiatt
Lo dice l’artista, che lavora in un ex-scuderia di South Kensigton, tra masse di tubetti consumati a metà, piatti e pentole, foto di Gobbels, scene di disastri. Nasce qui la pittura più allarmante del nostro secolo.
da “Arte”, maggio 1985.
Dopo il sovvertimento stilistico che ha ridotto in frammenti ogni certezza sull’arte in questo secolo, quali immagini restano? Quali visioni, sopravvissute alla prova del tempo, ossessioneranno le generazioni future? La domanda costituisce il fondamento di ogni giudizio significativo sull’arte contemporanea. Soltanto dopo aver deciso che cosa è meglio, si può formulare una nozione di qualità: questa è la base della critica, oltre che di ogni competenza specifica. L’errore è possibile naturalmente – soprattutto in campo artistico.
Per valutare un nuovo vino o un mobile, sono disponibili criteri istituiti. Ma non è più così per la pittura. Quando Matisse sognava un’arte che sarebbe stata una “comoda poltrona”, evocava valori validi nel diciannovesimo secolo. Vista dalla prospettiva di oggi, l’arte più alta del nostro tempo non sembra affatto facile o rassicurante, bensì abrasiva, allarmante, perfino spaventosa.
Anche i suoi detrattori sarebbero d’accordo che non c’è nulla della “comoda poltrona” nell’opera di Francis Cacon. Lungi dall’essere facili, le sue tele suscitano un’angoscia inaudita. La sua visione dell’uomo è quella di un animale intrappolato e torturato nella consapevolezza della propria mortalità. Si aggredisce di conseguenza l’aspetto umano – violato e brutalizzato con ciò che potrebbe sembrare una fluidità sadica dell’ispirazione. Ma da questa aggressione incessante sono derivate immagini di una potenza raramente uguagliata dalle prime e più inquietanti trasformazioni di Picasso. Per la sua natura misteriosa e fluida, questa potenza è impossibile da definire. Se la si potesse spiegare, non esisterebbe. È il nucleo dell’opera di Bacon, il cuore della sua capacità di ossessionare l’occhio. Scrivere seriamente della sua arte significa avvicinarsi, per quanto possibile con le parole, a quest’essenza misteriosa.
L’artista ha parlato a lungo e vivacemente dei propri processi creativi – dei quali, naturalmente, è l’unico a poter parlare con autorevolezza. Tuttavia i commenti degli artisti sul proprio lavoro sono di rado obbiettivi: tendono ad attirare l’attenzione su ciò che vogliono mettere in evidenza e a distrarla da aspetti che sembrano, almeno a loro, di minor importanza.

David Hockney ha colto nel segno quando ha citato, come prefazione alla sua intuitiva autobiografia, l’osservazione di Sickert, secondo il quale non si dovrebbe mai credere a ciò che dice un artista, ma solo a ciò che fa. Spesso anche gli artisti nascondono le proprie tracce: evitano di dire ciò che li ha davvero influenzati, o la causa della comparsa di certi elementi nuovi nella loro opera. Il che, insieme con un pizzico di malizia, provocò la famosa frase di Picasso “L’art nègre, connais pas…”, mentre erano in corso i più seri tentativi di stabilire l’iconografia de Les demoiselles d’Avignon.
D’altra parte Bacon è stato prodigo di informazioni su ciò che lo ha segnato come artista. Le numerose interviste che ha rilasciato sono state paragonate, per l’intuito e l’impegno, a quei classici di letteratura dell’arte che sono le Lettere di Van Gogh e il Diario di Delacroix. Ha messo in luce la zona misteriosa della creatività quotidiana di un artista, fino a lasciar fotografare il suo studio più volte, in ogni condizione, con i materiali e l’ammasso di documenti che tiene intorno a se mentre lavora – dato che lo studio di Bacon è un archivio completo del modo in cui si feconda la sua fantasia: cosparso do colore, coperto di uno strato di libri e figure alto fino alla caviglia: è lo specchio della mente dell’artista.
Lo studio londinese di Bacon, abbastanza imprevedibile dall’esterno, è situato in un tranquillo cortile selciato, già scuderia, di South Kensigton. Una volta salita la scala che porta al piano superiore, ripida come la biscaglina di un’imbarcazione, il visitatore entra in una stanza rettangolare abbastanza vasta da permettere al pittore di concentrarsi su una sola tela per volta; per questo incorreggibile pittore di trittici, ci si sarebbe ragionevolmente aspettati uno spazio tre volte più ampio, nel quale si potesse lavorare contemporaneamente a quadri diversi. La luce che proviene dalla piccola apertura in alto e dalla parete laterale sembra appena sufficiente a valutare la soavità acida del colore. Gli sono stati offerti molti ambienti più grandi, ma Bacon non si è spostato da qui. Lavora meglio in questa stanza modesta, familiare, disordinata.
L’onnipresenza del colore è ciò che colpisce di più, quando si entra in questo ambiente così denso. Segni colorati – macchie casuali, pennellate, serie di prove di una tinta sull’altra (arcobaleno o cascata) – sulle pareti diventano tavolozze gigantesche. Un altro insieme di macchie e gocciolamenti casuali si estende in una rete confusa di colori sul pavimento cosparso di libri e fotografie. Masse appiccicose di tubetti consumati a metà, ciuffi di pennelli raggrumati spuntano da tutte le parti, in mezzo a piatti e pentole per mescolare il colore, rulli, stracci, barattoli, e vasetti di tutti i tipi.
Un vecchio passaporto o una scarpa lucida spaiata appaiono di tanto in tanto, come un uomo che affoga. Appese alle pareti co sono riproduzioni dei quadri immacolati di Bacon , emerse da questo disordine scoraggiante. Ma la grande confusione ha anche qualcosa di allegro, perfino di festoso, perché trasmette una profonda noncuranza per le quotidiane regole di vita ed esprime un raro senso di libertà.
Ciò che poi colpisce l’occhio è il caos che ricopre il pavimento dello studio, che si può interpretare come una specie di fonte d’ispirazione per Bacon. Macchiati di pittura e calpestati, ci sono articoli di giornale, libri che vanno dalla filosofia presocratica a manuali sul comportamento delle scimmie, una vecchia riga a T e il coperchio della pattumiera, oltre a maglioni imbevuti di pittura già premuti sulle tele per produrre uno speciale effetto cromatico a coste. Sopra di tutto, ci sono fotografie di spettacolare varietà: istantanee di amici; illustrazioni di Michelangelo, Velasquez e Rembrandt; scene di disastri, scontri automobilistici, reportage di guerra; studi di animali o di atleti in movimento; fotografie del Terzo Reich; Polaroid di Bacon stesso. Questo guazzabuglio d’immagini diventa più affascinante quando l’artista si muove da un angolo all’altro dello studio ingombro, spostando col piede immagini mezze sepolte che emergono per un attimo. Eppure, il sapere che le fotografie di Gobbels giacciono guancia a guancia con le tragedie di Eschilo, o che i pugili fissano una pagina di T.S.Eliot, dice qualcosa soltanto riguardo degli ingredienti grezzi che possono talvolta confluire nella fantasia di Bacon. Il problema essenziale, e il più complesso, è quello di determinare come si trasformano. Dopo tutto, Bacon, ha avuto l’ opportunità e il vorace appetito visivo di osservare quasi tutto della vita; e la sua fantasia possiede al più alto grado il potere di mescolare il ricordo consapevole con quel tipo di fortuita memoria che scivola nei nostri sogni. “ Sono come un tritatutto” mi ha detto una volta. “Tutto ciò che ho visto entra dentro di me per uscirne poi finissimamente tritato”.
In verità, sovente l’artista stesso non riesce a districare i disparati elementi che si sono fusi nella sua mente per suggerirgli questa o quella immagine enigmatica.
“Una volta stavo dipingendo un quadro e contemporaneamente guardavo una foto di uccelli che si tuffano in mare”, ricorda. “E questa curiosa doppia immagine è venuta fuori nel quadro. Voglio dire, penso ad essa come a due persone che si muovono, e mi ricorda pure certe figure greche. Ma non saprei spiegarlo”.
Quanto più finemente questi elementi “si sbriciolano”, tanto più è difficile “spiegare” i quadri. Si potrebbe scrivere una tesi sugli effetti che forme biomorfiche di Picasso – le creature dalle membra tubolari nei tardi anni Venti – hanno avuto sulle disordinate incursioni di Bacon nell’anatomia umana; o sulla profonda ammirazione dell’artista per i pastelli di Degas, specialmente per i nudi, e il modo in cui l’artista stesso ha incorporato parte della tecnica del pastello nella sua pittura a olio. Ma la capacità di Bacon di riordinare le informazioni ricevute – di dipingere un papa accanto alla carne di un macellaio, o una figura che gira con i piedi la chiave della porta – rimane quasi impenetrabile.
Se questo è vero per le fonti visive dell’artista, è ancora più vero per le poesia in cui si immerge costantemente. Essendo un lettore che preferisce approfondire gli argomenti, anziché variarli, Bacon ritorna di volta in volta a un numero ristretto di capolavori – le tragedie greche, Shakespeare, Nietzsche, Proust, Joyce, Yaets ed Eliot. Ogni tanto in riferimento alla loro influenza sulla sua fantasia si esprime in un titolo, ma non si può dedurre nulla di attendibile da ciò, al di là di un generico parallelismo tra il pessimismo tragico della poesia e il grido di disperazione che echeggia in tutta l’opera di Francis Bacon.
L’artista è sempre rimasto sorpreso quando gli è stato detto come la gente giudichi “orribile” o “violenta” la sua pittura, rispondendo che la vita stessa è violenta e che nei suoi quadri si preoccupa di creare la realtà nel modo più intenso e crudo possibile.
Bacon parla della sua “disperazione allegra”, una consapevolezza della vita che è insolitamente intensa e acuta, in costante armonia con le sue implicazioni tragiche. Nell’infanzia in Irlanda, dove è nato nel 1909, da genitori inglesi, ha cominciato a sentire questa forte coscienza della violenza e della mortalità. Rievoca l’ascolto nel buio di un reggimento di cavalleria britannico alle manovre, alla vigilia della prima guerra mondiale e, più tardi, il clima di terrore provocato dalle imboscate per le strade e dei cecchini di Sinn Fein.
Bacon fa spesso riferimento alla violenta emozione provata nella Berlino dell’anteguerra, dove fu testimone dei gradi estremi del lusso e della povertà, così come di una varietà vistosamente esibita di pratiche sessuali.
Benché molto resti da dire sulla vita dell’artista, questa è affascinante soltanto perché sono le immagini che ci affascinano. Riesaminando il quarantennio di sviluppo che porta dalle primissime opere, come Painting (1946), oggi al Museum of Modern Art, alle più recenti composizioni cupe, esposte nelle Gallerie Marlborough di Londra e New York, si resti stupiti dalla continuità di una visione ossessiva della vita. Al di là di tutte le trasformazioni innovatrici dello spazio e della padronanza della tecnica della pittura a olio, Bacon si occupa soltanto degli elementi essenziali.
L’elemento umano è colto tra il pigmento spietatamente brillante e l’ombra della sua mortalità. Ciò che conta non sono tanto i terribili estremi ai quali Bacon ha portato le sue figure, come pure la loro resistenza a queste stranezze. Appena accanto alla carcassa di un bue, inchiodate da una siringa a un letto bitorzoluto, in un turbine di furore disperato o di timore tremante, le figure di Bacon sopravvivono. Avendo incorporato le sventure di un secolo travagliato dalle calamità, esse continuano a vivere per raccontare tragicamente la loro storia.