di Alessandro Riva
Metti una giornata di fine estate a Kassel, a Documenta. Una performance, dal titolo eclatante e provocatorio, Auschwitz on the Beach,che sarebbe dovuta essere messa in scena alla Rotonda del Fridericianum, con la colonna sonora di Fabio Berardi e un’installazione visiva dell’artista brasiliano (ma di stanza a Bologna) Dim Sampaio, cancellata, e sostituita poi da un meno ingombrante “dibattito pubblico”. Con il suo autore – Franco Berardi “Bifo”, attivista politico di lungo corso, tra i leader del Movimento del 77 a Bologna, sua città natale – trovatosi a doversi scusare con i rappresentanti della comunità ebraica di Kassel, “per la sofferenza che aveva potuto provocare” con le parole della sua performance. Al punto che decide, di sua spontanea volontà, di “cancellare dal proprio computer” il testo da cui l’idea stessa della performance era nata. Ma che, in un lungo discorso, in realtà non ritratta nulla, anzi: rilancia la sua tesi “scandalosa”: la morte in mare dei migranti è un “genocidio etnico”, paragonabile a quello della Shoah, e la politica delle nazioni europee è equiparabile a quella dei nazisti verso gli ebrei (“L’acqua salata ha sostituito Zyklon B”).
E le istituzioni artistiche? I musei? Gli intellettuali? Riuniti in unico, assordante silenzio, a far di tutto per ignorare che il “fattaccio” sia mai neanche avvenuto, che le parole “scandalose” siano neanche mai state pronunciate. Sono questi gli ingredienti del “giallo dell’estate” di Kassel: quel giallo che la stampa italiana, dal primo all’ultimo giornale, hanno deliberatamente ignorato, e che gli pseudo-intellettuali di cui pullula il nostro piccolo, povero, mercificato sistema dell’arte, sempre pronto a far finta di inalberarsi e indignarsi, purché l’indignazione non scontenti nessuno e soprattutto non disturbi l’assessore, il funzionario o il ministro di turno (non si sa mai che ne venga qualcosa in cambio), di fronte allo “scandalo” di chiamare le cose col loro nome, hanno preferito invece tacere. Ignorare. Nascondere sotto il tappeto.
Nell’arte contemporanea, infatti, si può fare e parlare di tutto: si può torturare animali, parodiare la morte di un povero bimbo, pisciare sul crocefisso, crocefiggere rane, si può mostrare budella, sangue e peli pubici, si può celebrare serial killer e ridere sui morti ammazzati, si può ammucchiare montagne di calzini sporchi o di vestiti usati, si può mettere in scena Hitler che prega e il Papa che cade sotto un meteorite, si può fare i giullari, mostrare il dito alla finanza mondiale (e nel contempo farsi applaudire e lautamente pagare dagli stessi ai quali si mostra il dito), riunire 80 mila chili di merda in una stanza e prendere per il culo l’universo mondo. Ma attenzione: non si può toccare il nuovo ordine mondiale, dicendo, come ha fatto l’eterno outsider Bifo, quello che è sotto gli occhi di tutti: che ai margini del mondo “democratico” e aperto di oggi, nel mondo opulento, borghese, dei bar sempre affollati e delle pizzerie strapiene – nonostante una crisi economica sempre più asfissiante, pressante e drammatica –, intere comunità, famiglie, persone, fette di popolazione provenienti dai paesi più poveri e in guerra, vengono lasciate ai margini quando va bene, o alla peggio eliminate, uccise, poiché muoiono di stenti o di torture in veri e propri campi di concentramento sparsi qua e là nel mondo, o nei mari, o lungo i confini ben chiusi dai nuovi stati europei improvvisamente diventati sovranisti e riscopertisi razzisti; e che tutto questo ha un nome: e questo nome è, appunto, “genocidio”. Che è, o per lo meno può essere, paragonabile – fatte le debite differenze storiche –, al sistematico sterminio degli ebrei perpetrato da Hitler negli anni Quaranta. Questo, e non altro, ha detto Bifo, suscitando un’ondata (come vedremo più avanti) di reazioni indignate, di polemiche, anche di insulti (ma non in Italia, dove è stato ignorato).
E ancora: che le politiche degli Stati europei, armati fino al collo non per combattere guerre contro altri Stati, come avveniva un tempo, ma contro intere popolazioni inermi che scappano da guerre, povertà, distruzioni e carestie, per escluderle da qualsiasi possibile futuro e per consegnarle a una morte quasi certa, ebbene, che questo tipo di politiche hanno, possono avere un nome, e questo nome è “fascismo”, o “nazismo”. Non più, purtroppo, quel “friendly fascism” teorizzato oltre trent’anni fa da Bertram Gross, ma un fascismo ormai ben più violento, sfacciato, aggressivo, militarizzato, fatto di parole d’ordine apertamente razziste e incitanti allo sterminio di massa, di politiche nazionali determinate a lasciare chi è fuori alla mercé di assassini, criminali, killer pagati dagli stessi stati che all’interno dei loro confini si professano democratici, di campagne giornalistiche e inchieste giudiziarie che hanno, se non lo scopo dichiarato, certo l’unico effetto, di impedire – esattamente com’è avvenuto, in questa terribile estate del Mediterraneo, con chirurgica perfezione – che i membri delle Ong salvino in mare i migranti in procinto di affogare, condannandoli così a morte certa, o al ritorno nelle carceri dove i loro aguzzini possono fare di loro ciò che vogliono.
Si può, dunque, dire oggi questo, un discorso lineare, chiaro – che può anche essere non condiviso, certo –, ma che ha un suo senso e una sua logica ferrea? No, nel “democratico” e aperto sistema dell’arte, quello in cui apparentemente tutto è permesso, tutto è lecito, tutte le provocazioni sono concesse, dalla coprofilia alla blasfemia, questo non si può dire: perché paragonare il nome della Shoah – la più grande tragedia della storia umana recente – allo sterminio di massa che si sta perpetrando oggi nei mari e sui confini d’Europa, è “irrispettoso” per le vittime dell’Olocausto: sarebbe, dicono alcuni, “relativizzare l’Olocausto”. Dunque, chi prova a dirlo va messo a tacere. Censurato – poiché di censura, come vedremo fra un momento, effettivamente si è, bene o male, trattato. Nel vergognoso silenzio della nostra cosiddetta intellighentia e della stampa. Si può far di tutto, dunque, nell’arte contemporanea: ma bisogna fare bene attenzione ad agitare lo spettro di un paragone urtante, scandaloso, indicibile – quello tra il genocidio dei migranti e la Shoah.
Il titolo della performance era, appunto, Auschwitz on the Beach– che, per chi non la cogliesse, è una chiara citazione di una delle opere-simbolo dello sperimentalismo musicale e visivo del Novecento, Einstein on the Beach di Philip Glass e Bob Wilson, del 1976, che trattava, in maniera polifonica e fluida, i temi di una vera e propria “epopea moderna” del nostro tempo; a sua volta ispirata, nel titolo, a un romanzo di fantascienza del 1957, On the Beach di Nevil Shute, che trattava invece di un drammatico e assurdo futuro postnucleare del mondo; un mondo folle, che nella finzione letteraria aveva perso ogni regola e ogni senno, alla mercé di “pazzie che non si possono arrestare”, dove “un paio di centinaia di milioni di persone decidono che il loro orgoglio nazionale li costringe a sganciare bombe al cobalto sul loro vicino”. Un mondo, insomma, non troppo distante da quello in cui viviamo noi oggi, o di quello in cui potremmo vivere in un prossimo futuro…
“Il mondo nel quale viviamo è entrato in una spirale di atrocità, di infamia, e di violenza”, aveva scrittopoche settimane or sono Bifo proprio per presentare Auschwitz on the Beach. “La miseria materiale e morale alimentata dal capitalismo finanziario ci ha reso incapaci di provare sentimenti umani, fino al punto che in questi mesi assistiamo impotenti e anche un po’ indifferenti a un’operazione di deportazione razziale, di sterminio sistematico, di annegamento di massa a carattere razziale. La popolazione europea, nella sua grande maggioranza, rifiuta di assumere la responsabilità della migrazione provocata dallo sfruttamento coloniale e dalle guerre che hanno alimentato le nostre economie”. E, in un altro testo, scritto contestualmente per un portale indipendente, Effimera, specificava il paragone con la politica nazista: “Dal 1940 il nazionalsocialismo usò l’espressione ‘soluzione finale’ per definire gli spostamenti forzati e le deportazioni (‘evacuazioni’) della popolazione ebraica che si trovava allora nei territori controllati dalla Wehrmacht. A partire dall’agosto del 1941, questo governo degli spostamenti si trasformò nello sterminio sistematico della popolazione indesiderata. L’Europa è tornata esattamente allo stesso punto, anche se le vittime di quello che Minniti chiama governo della migrazione sono enormemente più numerose. (…) Esiste ancora l’Unione europea? Su qualcosa l’Europa è unita. Negli ultimi dieci anni è stata unita nell’imporre misure finanziarie rivolte al trasferimento delle risorse dalla società al sistema bancario, col risultato di devastare la vita sociale in molti paesi, soprattutto quelli del sud. La società è impoverita al punto che i cittadini europei, impotenti a fermare la violenza di chi è più forte di loro (il sistema finanziario) cercano un capro espiatorio, qualcuno più debole di loro da perseguitare, rinchiudere, sterminare”.
“Non è esattamente quello che accadde negli anni ’20 e ’30 in Germania? Dopo la prima guerra mondiale Maynard Keynes lo aveva scritto in un libro intitolato Le conseguenze economiche della guerra. Alle potenze vincitrici riunite a Versailles aveva detto: non imponete alla Germania misure punitive che provochino l’umiliazione e l’impoverimento, il popolo tedesco potrebbe reagire in modo violento. Non lo ascoltarono. Le decisioni del Congresso di Versailles portarono alla rovina dell’economia tedesca e il popolo tedesco si riconobbe in un uomo e in un partito che proponevano l’eliminazione dei rom, dei comunisti e degli ebrei. Similmente negli ultimi anni molti hanno detto: non distruggete i servizi sociali e la vita quotidiana degli europei, altrimenti il popolo europeo cercherà un modo per vendicarsi contro qualcuno che non possa reagire. Il momento è giunto”.
“L’Unione è stata in questi anni uno strumento per lo spostamento di risorse dalla società al sistema bancario, ora l’Unione si trasforma in macchina per lo sterminio. I nazisti la chiamarono soluzione finale. Il vertice europeo di Parigi ha deciso che lo stalino-nazista Minniti è la sua guida. Finanzieremo (poco ma abbastanza) i militari libici e africani perché incarcerino, affamino, violentino, torturino e sterminino chi vorrebbe raggiungere il mare. Puniremo le Ong che si permettono di salvare la vita a chi ha osato superare il muro militare. Credo che possiamo chiamarla soluzione finale…”
Le reazioni, come dicevamo in apertura di articolo, non si sono fatte attendere. Non passa qualche giorno dall’annuncio della performance, che si levano infatti le prime, asprissime, critiche. Una vera levata di scudi generale e – ça va sans dire– assolutamente bipartisan. Tra i primi a intervenire, il Comitato internazionale di Auschwitz, che, per bocca del suo vice-presidente Christoph Heubner, bolla come “maldestro sensazionalismo” l’operazione di accostamento tra Auschwitz e la tragedia dei migranti di oggi. Dal canto suo, Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera, parla di una “relativizzazione irresponsabile dell’Olocausto”, il ministro dell’arte e della scienza dell’Assia, Boris Rhein (della Cdu) definisce la performance “di cattivo gusto”, mentre il sindaco di Kassel Christian Geselle (della SPD) parla di “provocazione scandalosa”. È a quel punto che il direttore di Documenta, Adam Szymczyk, decide di sospendere la performance, sottolineando che questa, in ogni caso, “non è mai stata destinata a relativizzare l’Olocausto, ma per far luce sulla controversa situazione dei rifugiati in Europa”.
Così la performance, come abbiamo detto in apertura, viene sostituita da una discussione pubblica sul tema, a cui avrebbe dovuto seguire la lettura, da parte di Bifo, della poesia da cui aveva preso l’avvio la performance. Il seguito è quello raccontato appunto all’inizio: Bifo si scusa con la comunità ebraica, rinuncia addirittura a leggere la poesia da cui ha preso l’avvio la performance, ma non arretra dalle sue posizioni. Il titolo della performance, pur provocatorio, mette infatti il dito nella piaga: lo sterminio, spiega Bifo, è “strettamente razziale”. “Se io voglio andare a Lagos o a Beirut mi basta comprare un biglietto d’aereo”, dice Bifo all’incontro; “perché per un palestinese o per un nigeriano non può essere la stessa cosa? Sterminio su base etnica dunque. Non è forse legittimo ravvisare gli estremi del nazismo?”.
La decisione di usare un titolo così provocatorio, del resto, non era stata presa a cuor leggero. “È legittimo”, si era chiesto lo scrittore e filosofo bolognese in un testo di qualche settimana prima, “usare l’espressione Auschwitz on the Beachper parlare del respingimento sistematico di milioni di uomini e donne che cercano di sfuggire alle terre che lo sfruttamento coloniale e la guerra imperialista hanno trasformato in un inferno senza speranza? È legittimo equiparare ciò cui stiamo assistendo al nazismo? Qualcuno tra i miei amici più cari mi ha sconsigliato di farlo, ma credo che questa volta sia necessario varcare quella soglia. Vogliamo forse contare il numero delle vittime? Non possiamo, perché lo sterminio è in corso. Oppure vogliamo aspettare che tutto sia finito per valutare se il numero delle persone torturate schiavizzate uccise nei campi di concentramento che abbiamo commissionato ai nostri Gaulatierturchi e nordafricani raggiunga il limite tecnico che abbiamo stabilito di identificare con il male assoluto, così da poterci poi assolvere? Il cinismo e l’ignoranza della classe politica alimenta l’egoismo conformista della maggioranza della popolazione europea, impoverita da trent’anni di capitalismo finanziario e abbruttita dai media di regime. L’intellettualità europea è scomparsa, e ha lasciato il posto a cialtroni come quelli che durante questa estate d’infamia si chiedono perché un irrilevante individuo di nome Renzi sia amato da alcuni e odiato da altri, come se fossimo in un romanzo di Carolina Invernizio. Ma non siamo in un romanzo”, conclude Bifo: “siamo all’inferno”.
Chi trovasse “esagerate” o fuori luogo le circostanze elencate da Bifo, potrebbe semplicemente soffermarsi – anche lasciando stare per un momento la drammatica evidenza del genocidio in atto in questo stesso istante nei mari e ai confini d’Europa (che un altro artista, Ai Weiwei, ha ben documentato nel suo “Human Flow” girato in 22 paesi, oggi in corsa al Festival del cinema di Venezia) –, sulla piega sempre più becera, violenta, ottusamente razzista, che il dibattito ha preso in Italia negli ultimi mesi: una valanga di odio, di paura, di fascismo dichiarato, di razzismo sfrenato, un orrendo minestrone di luoghi comuni, di notizie di cronaca nera gonfiate e utilizzate strumentalmente per gettare benzina sul fuoco del razzismo non più strisciante ma evidente, di bufale utilizzate ad hoc per alimentare la paura, e poi rabbia, odio, insulti, indignazione a buon mercato, linciaggi pubblici; i social network ormai diventati, a traino delle peggiori trasmissioni tv, il ricettacolo di ogni violenza reale o virtuale, luogo della rissa verbale indiscriminata, delle gogne mediatiche, delle guerre tra poveri, dell’incitamento alla morte, allo stupro, all’eliminazione fisica e allo sterminio razziale di chiunque sia visto come “fautore” o complice di una presunta invasione barbarica “negra” e “africana”, esistente solo nelle teste di chi la paventa, che farebbe accapponare la pelle a un Orwell redivivo, e gongolare di felicità un teorico della tecniche di manipolazione delle masse.
Sì, un nuovo tipo di fascismo è alle porte: e i social network, nella banalità della loro violenza verbale senza vergogna e senza più timidezza né autocontrollo, non sono che l’apripista di questo nuovo fascismo montante e ormai dilagante. È un fascismo becero, torbido, non più strisciante, nato dalla dissoluzione di qualsiasi idea politica alta che non sia nutrita di parole d’ordine banalizzanti, violente e demagogiche, cui assistiamo ogni giorno sui social network, nelle strade, nelle trasmissioni televisive che da anni ci propinano dosi massicce di paura, di terrorismo psicologico, di contrapposizioni tra “italiani buoni” vessati dall’impoverimento progressivo e stranieri cattivi e criminali, un fascismo fatto proprio da migliaia e migliaia di uomini piccoli piccoli, che spesso non hanno perso nulla e continuano la loro vita di sempre, ma oggi (ecco la novità) non si vergognano più di disprezzare chi non ha più nulla e non ha diritti né soldi né terra a cui tornare, e che si sta impossessando di sempre maggiori fette di società; un fascismo fatto di politici che non si vergognano di far proprie le parole d’ordine e la pratica quotidiana di questa nuova ideologia del disprezzo, dell’egoismo e della violenza contro chi, non avendo alcun diritto, è di fatto un invisibile, un paria, un insetto da schiacciare o scacciare, dove non importa, purché non sia qui, a rendere “indecorose” o “insicure” le nostre città tutt’ora opulente e costellate di bar strapieni e di ristoranti affollati, belle auto, tecnologie, boutique, spacciatori, escort, veline – tutto il corollario del benessere quotidiano occidentale. Piaccia o no sentirselo dire, ma nuovi Auschwitz sono alle porte. Il fatto di non esserci dentro, per noi, non rende la cosa meno cruda o terribile.
Ma attenzione: questa marea melmosa e nera avanza inesorabile. Sta spezzando il senso del nostro stesso vivere civile, uomini tra uomini. E rischia di travolgerci tutti.