Molti artisti, dagli anni Novanta a oggi, hanno lavorato sul tema del paesaggio urbano. Una notazione a parte merita però il lavoro di Carla Mura, cagliaritana, da anni residente a Padova, che del paesaggio urbano ha estratto una sintesi formale e compositiva, riducendo la struttura del paesaggio a linee astratto-geometriche e utilizzando, per i suoi quadri, non più la pittura, ma un materiale atipico e mai utilizzato per l’arte, il filo di cotone, un filo d’un tipo raro, particolare e pregiato.
Prima di caratterizzare il proprio lavoro con l’utilizzo del filo di cotone, Carla Mura aveva iniziato, fin dai primissimi anni Duemila, a lavorare con materiali insoliti, guardando all’esperienza dell’informale americano e facendo sua la necessità di andare oltre la figurazione, calandosi mani e piedi nel lavoro pittorico in maniera spontanea e autentica.
Ma è proprio con la scoperta (casuale, come avviene spesso con le scoperte importanti, non di rado improntate a un concetto di serendipità), di quello che diventerà in seguito il suo mezzo peculiare e pressoché unico, che il lavoro di Carla Mura entra in una fase di maturazione e di forte riconoscibilità. Da quel momento, infatti, il suo diviene uno di quei non comuni tentativi di creare, attraverso l’utilizzo rigorosissimo dello stile e della creazione di un linguaggio specifico – inventato letteralmente ex novo dall’artista per l’occasione –, una personale chiave di lettura del mondo sensibile, al di sotto e al di là di quello “specchio” metaforico che è la sua immagine riflessa, per “ricostruirlo”, a livello formale e intellettuale, a sua immagine e somiglianza, a partire da un “grado zero” dell’immagine che non negasse i fondamenti strutturali del visibile, ma li trasformasse in linee, geometrie, orizzonti, punti di fuga.
Carla Mura comincia, così, a ri-costruire il suo mondo immaginario a partire dal materiale e dalla forma pura, slegata dalla sua percezione immediata e visibile, secondo i precetti suprematisti, secondo cui la forma stessa è, per il semplice fatto di essere principio e motore del mondo, il fondamento stesso del mondo sensibile. Il suo è un riapprocciarsi al mondo con uno strumento nuovo, per ri-affrontarlo, e ri-raccontarlo, nelle sue strutture fondanti. Il filo di cotone – strumento apparentemente anartistico e riconducibile a un universo tutto femminile, dunque fortemente identitario –, diviene così il personale filo d’Arianna dell’artista nel suo viaggio a ritroso nell’inconscio del visibile, per riappropriarsi di uno sguardo originale su un mondo che altrimenti rischierebbe, nella sua complessità e superficialità, di sfuggirle, parcellizandosi, banalizzandosi e perdendosi in mille, inutili dettagli realistici e fenomenici. L’ossessione suprematista per la ricerca delle “forme pittoriche pure” del mondo si ricongiunge, così, con il desiderio di rimettere ordine, di ridare e forma e struttura a un universo di apparenze che, nella complessità e caoticità del contemporaneo avanzato, sembra perdere ogni parametro di comprensione di quello che è (o può essere?) la “vera” realtà di ciò che noi percepiamo con i sensi.
Carla Mura ricostruisce così, prima di tutto, con certosina pazienza, i parametri e le coordinate del suo linguaggio specifico: reinventando innanzitutto una propria grammatica (i fili, i colori), una sintassi (il concatenarsi dei diversi colori tra loro), e una stilistica (il modo e la poetica delle diverse concatenazioni), in un tutt’uno che comprende – e, comprendendolo, ne annulla e ne integra le differenze – tra forma e contenuto, e tra significante e significato: pur accennando a elementi, a dettagli prelevati di peso dal mondo sensibile, presenti ancora nell’opera attraverso la suggestione di titoli che alludono, sinteticamente, alle strutture del mondo visibile (riallacciandosi quasi esclusivamente, nella loro estrema concisione ed essenzialità, ad elementi fondamentalmente architettonici – Windows, Light, Margine, Il palo, Container, La casa azzurra, Metropoli, etc), la forma compositiva del quadro ne astrae, potremmo dire, ulteriormente l’elemento primario profondo, riducendo le forme del mondo, così come noi siamo abituati a conoscerle e a ri-conoscerle, a strutture geometrico-volumetriche, fatte di piani, di linee, di angoli, di orizzonti. In questo senso, l’opera di Carla Mura diviene così fondamentalmente un’operazione di sottrazione, di sintesi, nella sua inesausta ricerca dei piani fondanti, primari del reale.
Tuttavia, l’opera dell’artista non si ferma, e non si riduce, a una mera operazione di sintesi aritmetico-volumetrica. Tutt’altro. Il suo scatto, la sua forza poetico-formale, avviene proprio attraverso l’articolazione, crescente e cangiante, del gioco del colore, da una parte, e della tattilità del materiale dall’altra. È qui, infatti, nella percezione tattile e visiva dell’imprevedibilità metamorfica della singola opera, al di là dei suoi rigorosi codici interni, che risiede la forza d’attrazione del lavoro dell’artista.
L’impressione di chi si trova a guardare i quadri insieme rigorosissimi e seducenti di Carla Mura sembra infatti sempre slittare tra la suggestione emanata dal titolo – Windows, Margine, Ombra messicana–, legata al ricordo di scorci di paesaggio reale visti, o intravisti, in qualche momento della nostra vita, e il gioco insieme cangiante e rigoroso delle verticali e delle orizzontali, dei pieni e dei vuoti, offerti dall’incrociarsi vorticoso dei mille fili di cotone del quadro, come in un rigoglioso, caleidoscopico e scintillante rimescolamento di colori cangianti e specchianti: quasi ci ritrovassimo a riconoscere, in questa duplice sensazione visiva, un riflesso lontano e quasi involontario di quel che ci accade, inconsciamente, quando ci troviamo a passare da una strada di notte, o quando guardiamo, di lontano, dal finestrino di un treno o da un’altura lontana, il gioco dei riflessi di una città nella luce ambigua di un’alba o di un tramonto d’estate, e il nostro occhio stenta a distinguerne forme e colori, muovendosi, quasi a propria insaputa, tra il riconoscimento delle singole, vaghe forme architettoniche, e il dolce, confortante perdersi dell’occhio nel semplice gioco dei riflessi, dei colori, dei volumi e delle ombre che si mescolano morbidamente tra loro. È qui, in questa doppia e felice ambiguità della visione, che Carla Mura mette in scena il suo gioco a rimpiattino con l’occhio dello spettatore, eternamente sospeso tra il rigore interno dell’architettura dell’opera e la straordinaria, dolce, sensuale evanescenza della materia e del colore.
Alessandro Riva
Carla Mura | Architetture Sensibili
Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter
Via Cadolini, 27 | Milano
3 giugno 2015 – 19 giugno 2015