di Angelo Crespi
Scrivere un libro contro l’arte contemporanea, quella più orribile e osannata, ti espone al sorrisino smorfioso degli addetti ai lavori. Se sostieni che un’opera “è brutta” ti guardano allibiti, sostenendo che non puoi giudicare utilizzando i termini “bello o brutto”; se ti azzardi a dire che però il “brutto oggettivo esiste”, ti evitano con commiserazione; se aggiungi che “quando un’opera non è prodotta dall’artista non è un’opera” ti snobbano; se insisti a dire che “non la capisci” allora passano oltre, intuendo che è una battaglia persa. Eppure vagolando per mostre e gallerie e fiere la sensazione di spaesamento è continua, e la gente normale rischia la figura della pingue moglie dell’Alberto Sordi fruttarolo romano, nel mitico “Vacanze intelligenti”, che si siede esausta su una sedia durante la visita della Biennale di Venezia e viene scambiata per un pezzo d’arte concettuale. Ma non c’è modo di ovviare. Da quando il giudizio estetico è stato vietato, il cosiddetto fruitore è uno spettatore pagante il cui compito è esclusivamente di applaudire cose che non comprende. E zitto!

Ovviamente il meccanismo è oliato e la neolingua che sostiene ogni bruttura è nella sua coerenza inattaccabile (spesso incomprensibile), tanto da non prevedere uscite di sorta. A sostenere l’art system un gruppo happy few (qualche grande gallerista, qualche grande collezionista, qualche direttore di museo, qualche critico, alcuni curator, le case d’asta…), che specula su un mercato internazionale, di fatto un oligopolio, che vale alcuni miliardi di euro le cui azioni/opere d’arte devono essere al pari delle azioni fungibili (come il denaro), assolutamente slegate da qualsiasi giudizio se non il prezzo, così che i valori possano salire senza motivo e moltiplicarsi in modo insensato (si pensi alle quotazioni stramilionarie di alcuni pezzi contemporanei).
A questo si deve aggiungere che gli artisti, spesso semplici creativi senza nessuna disciplina (anzi il talento e il virtuosismo è da bandire), usano le tecniche del marketing e della comunicazione per far vivere le loro opere: dissacrazione, coprofilia, zoofilia, pornografia sono le categorie più usate per un’arte che – scrive Jain Clair – va sentita e annusata più che guardata. Quindi in soldoni, un facile uso della merda, dei licori corporali, una sorta di teologia al contrario per colpire i simboli della religione, per svilire la bellezza e il senso del sacro. Nessun desiderio di ascesi, di comunicazione, di eternare il mondo o di rappresentarlo, semmai un baccanale festante che preannuncia la fine del mondo e dell’uomo.
Nel mio piccolo pamphlet non c’è nessun moto moralistico né bigotteria di sorte, semmai l’ironia di mostrare il re nudo facendo nomi e cognomi di artisti, galleristi, critici, curator… mostrando con occhi ingenui le storture, i vizi, i tic di chi davanti alla mitica “Turbo cloaca”, una macchina per produrre escrementi, del belga Wim Delvoye urla al miracolo e non potendo dire “bella”, a mezza voce sussurra “poeticissima”...
Qui di seguito, un estratto dal libro di Angelo Crespi, “Ars Attack. Il Bluff del contemporaneo” (Johan & Levi, 2013, pagg. 104, euro 10)
La teoria dello Sgunz e le modalità site specific degli sgunzer
“Il problema non è l’arte contemporanea, ma lo sgunz che si eleva ad arte. A pensarci bene tutta l’arte è stata contemporanea almeno una volta e molta dell’antica è più contemporanea di quella nuovissima. D’altronde l’arte antica che è sopravvissuta al tempo, per quanto riguarda la fruizione è certamente contemporanea. Dunque tutta l’arte che abbiamo la possibilità di vedere ci è contemporanea. Così ragionando, possiamo bene realizzare cosa è l’arte, quali sono i valori che la sorreggono, perché una cosa vada considerata arte e una cosa no: l’immenso millenario giacimento su cui ci reggiamo in piedi è un terreno solido da cui non dovremmo prescindere. Al di là degli stili, delle rotture, delle provocazioni, dei ritorni – è chiaro che non c’è nessuna evoluzione nella storia dell’arte, semmai un approssimarsi a quello che si vuole dire in un certo momento di una certa epoca – la congerie di cose e oggetti e monumenti che si sono accumulati nei secoli ci fornisce un perimetro di senso. Complicato codificare questo senso in modo compiuto e definitivo, ma sufficiente per farci dedurre che l’arte più o meno è sempre stata collegata al bello, al fatto bene, all’ornamentale, alla rappresentazione, alla comunicazione, al trascendente. Di fatto, un oggetto o un edificio assurgeva a opera d’arte quando se ne riconosceva la bellezza, la fattura, il pensiero da cui era scaturito, oppure la capacità cosciente di comunicare un pensiero, o farci avvicinare al divino.
Ebbene, considerando in tutte le sue pur varie eccezioni l’apparato normativo che è tutta la storia dell’arte fino ad ora, se una cosa è brutta, mal fatta, non vuole comunicare nulla, perché dovrebbe essere considerata arte? E perché in verità viene considerata arte? Domande a cui non è facile rispondere e qualora ci si tentasse rischieremmo di essere derisi e svillaneggiati, poiché la non-arte di oggi si basa su un sistema ideologico e di potere radicato che non ammette cedimenti. Dato che alla fine la verità prevale sulla menzogna e la realtà sull’ideologia, lo sforzo di fronteggiare la non-arte potrebbe essere perfino sovraordinato rispetto al risultato che ci prefiggiamo, essendo il tempo un buon giudice, e in un prossimo futuro tutte le stravaganze orribili e nuovissime avranno il sapore stantio delle collezioni di stranezze che i nobili dei secoli passati raccoglievano nelle wunderkammer ed ora ci appaiono per quello che sono: animali esotici impagliati, tassidermizzati, sotto formaldeide, e polverosi, corni e teschi di bestie mitologiche mai esistite, meccanismi e finti trucchi pseudo scientifici per stupire un pubblico incolto, paccottiglia priva di valore.

Ciò nonostante vale la pena opporre una qualche resistenza poiché è la non-arte a pretendere di essere considerata arte; al contrario nessuna reazione provocherebbe se per essa si trovasse un nuovo nome, una nuova classe per una nuova tassonomia che comprendesse tutte le cose olezzanti, brutte, mal costruite, non significanti a cui si attribuisce un valore economico, e dunque di senso, attraverso un mercato bloccato, di fatto un oligopolio controllato da un gruppo di pochi eletti. Se per la non-arte si utilizzasse il termine “sgunz” non ci sarebbero problemi e nessun fraintendimento, non dovremmo tenere insieme forzatamente nello stesso ordine le statue di Fidia e la merda di artista di Manzoni, la cappella Sistina e la Turbo Cloaca di Wim Delvoye, Caravaggio e le foto di escrementi scattate da Serrano, il Cristo morto di Mantegna e il dito medio alzato di Cattelan. Gli oggetti “sgunz” avrebbero un proprio statuto ontologico ed estetico, nessuno ne farebbe una tragedia, anzi sarebbe una nuova branca del sapere da frequentare con giusta attenzione. Gli artisti che proseguono sulla linea tracciata da circa 3 millenni continuerebbero a definirsi “artsti”, gli altri “sgunzer”.
A ben pensarci questa dicotomia esiste già, basterebbe renderla evidente, costruendo una fenomenologia dello “sgunz”. Dal punto di vista ontologico, lo sgunz è un oggetto ma anche no, essendo sufficiente una rappresentazione o una performance. Dal punto di vista estetico questo (non) oggetto o rappresentazione deve allontanarsi il più possibile dall’idea di bellezza, di ornamento, di funzione. Dal punto di vista gnoseologico, possibilmente non deve avere significati certi, venendo meno il rapporto tra forma e contenuto, semmai significati ulteriori, non univoci, e difformi rispetto alla forma utilizzata quand’anche si possa in via residuale parlare di forma. Lo sgunz in sostanza è (o non è) un oggetto, deve massimamente tendere all’orripilante, all’informe, all’insensato (meglio se tutto insieme), deve essere il più nuovo possibile (questo è imprescindibile), deve autodefinirsi come “arte”, e avere un pubblico che pur non capendone la portata ne sostiene entusiasta il valore.
Ovviamente lo sgunz annovera sostenitori, storici e critici, curator e giornalisti, collezionisti e pubblico plaudente, galleristi e direttori di museo, restauratori, un nugolo neppure troppo esteso di happy few che governano quello che comunemente viene definitivo art-system. Gli storici e critici hanno elaborato una teoria, i galleristi la fanno propria, i curatori scovano la materia prima, cioè lo sgunz, in seguito i galleristi e direttori dei musei la espongono, gli uffici stampa maneggiano i giornalisti amici, il mercante si arricchisce scambiandola, i restauratori se è il caso (spesso lo è) la restaurano, il collezionista ne fa incetta godendo di un beneficio sociale, il pubblico generico applaude senza capire il senso. Lo sgunz è una fede e non prevede eterodossie, per cui i custodi del sacramento sono inflessibili: ammansiscono i fedeli in cerca di ricompensa sociale con ferrea determinazione. Il sacramento passa di bocca in bocca e tutti i fedeli ripetono la liturgia senza comprenderne il mistero. Quando provi a obiettare, la risposte sono sempre le stesse: se tenti di dire che lo sgunz è brutto ti guardano perplessi, “come fai a dire bello, non esiste la bellezza oggettiva, al massimo può dire che ti piace una cosa”, se davanti a una “merda” insisti che però il brutto oggettivo esiste, restano ancora più perplessi, “allora sei è un nazista, sei uno di quelli che vuole distruggere le opere d’arte perché non ti piacciono”, se dubiti sulla modestia del manufatto ti schifano “non mi dire che sei è uno di quelli che pensa che avresti potuto farla tu… conta l’idea”, se non convinto persegui a sostenere che l’idea conta ma se la forma non è adatta non è arte, ti guardano con commiserazione e passano oltre, se infine ti ostini e magari propendi per l’arte, per esempio un quadro ben dipinto, sbottano nel classico “ci faremo ridere dietro”…”.