di Manuel de Varga
Si è aperta a Mar del Plata in Argentina, a Ushuaia (in Terra del Fuoco), e a Valparaíso, in Cile, la quarta edizione della Bienal del Fin del Mundo, con un parterredi artisti ospiti che non ha niente da invidiare alle altre grandi manifestazioni internazionali ormai ampiamente storicizzate. Quest’anno, infatti, la Bienal del Fin del Mundo ha alzato il tiro rispetto alle precedenti edizioni, invitando oltre 150 artisti di 35 paesi provenienti dai cinque continenti, con l’Italia come ospite d’onore e la direzione artistica affidata a Massimo Scaringella, curatore e critico d’arte italiano, ma con una lunga esperienza internazionale, prima alla Collezione Farnesina presso il Ministero degli Affari Esteri italiano e poi in diversi stati del Sud America, dove ha portato in musei pubblici e spazi privati decine di mostre di artisti contemporanei da tutto il mondo. Il tema scelto quest’anno per la Biennale è “Contrasti e Utopie”, affrontato attraverso tutti i diversi linguaggi della contemporaneità.
La prima tappa, inaugurata nel mese di dicembre 2014 in Argentina, ha visto la partecipazione di artisti internazionali come la guatemalteca Regina José Galindo, che lavora sul proprio corpo per mettere a nudo i conflitti esistenti sotto la pelle della società; l’israeliana Keren Cytter, che utilizza video, fotografia e installazione per ragionare sui conflitti interpersonali e nella vita quotidiana; Matteo Basilé, tra i più importanti protagonisti della scena artistica italiana, che lavora con video e fotografia con grande raffinatezza formale e compositiva su atmosfere fortemente oniriche e di grande pregnanza simbolica; altri artisti performativi e “relazionali” italiani, come Fabio Mauri , Marinella Senatore, Paolo Angelosanto; artisti che utilizzano la fotografia in modo fortemente originale come Angelo Marinelli e Teresa Emanuele; e ancora l’argentino Egar Murillo, che utilizza un materiale povero come i tappi di plastica per reinterpretare in chiave pop icone storico-politiche, da Che Guevara fino a Papa Francesco, come ironica riflessione sul presente; e ancora l’indiano Ravi Agarwal, videoartista e attivista politico-culturale molto impegnato sul fronte dell’ecologia; lo scultore cinese Wang Xieda, che nelle sue opere plastiche reinventa la tradizione del calligrafismo della sua terra.
La seconda tappa della Biennale, che si è invece aperta il 31 gennaio 2015 a Valparaíso, in Cile, ha visto la partecipazione di numerosi artisti provenienti da tutto il mondo, con una grande varietà di linguaggi e di materiali differenti. Ambientata in un bellissimo spazio museale all’interno del Parque cultural, dove un tempo era ospitato un carcere famigerato per aver ospitato gli oppositori del regime di Pinochet, questa edizione della Biennale, che per la prima volta si presentava al pubblico cileno, si è inaugurata in un’atmosfera di lavoro collettivo fortemente partecipato, con rimandi tra l’opera di un artista e l’altro che hanno saputo creare interessanti cortocircuiti visivi e semantici.
Biennale fortemente improntata al sociale, pur con divagazioni nell’onirico e nel fantastico, si può dire che sia stata idealmente aperta con opere di grande pregnanza, come quelle di Tracy Moffat, australiana, che nei suoi video affronta, come di consueto, temi impegnati come il razzismo, la sessualità, il ribaltamento dei ruoli sociali. Così come il peruviano Jose Carlos Orrillo, che nelle sue foto ha spesso manifestato interesse per temi politici e sociali. Anche i lavori di un pittore cinese dalla forte vocazione internazionale, Li Xiangyang, che il critico italiano Achille Bonito Oliva ha inserito tra i più interessanti astrattisti asiatici, presenta qui una variante maggiormente figurativa, da cui traspare però la propria radice astrattista, che sembra rimandare alle contraddizioni della società cinese odierna, stretta tra spinta alla modernizzazione e retaggi tradizionali.
Anche l’americano Stevens Vaughn è uno degli artisti che contribuiscono a dare un’impronta fortemente originale e di indiscusso livello internazionale alla manifestazione. Designer di fama internazionale, scultore, pittore, creatore di progetti onirici e apparentemente impossibili dal punto di vista tecnico, Vaughn è originario del Minnesota, ha vissuto quasi in ogni parte del globo, ha insegnato a lungo a Pechino e da qualche anno ha contribuito a costituire un’importante fondazione, la Hafnia Foundation, che esplora proprio il rapporto tra le diversità culturali delle espressioni artistiche tra i paesi asiatici, americani, europei. Per la Biennale, Vaughn ha realizzato un’installazione di grande impatto, il cui centro nevralgico è formato da alcune grandi pitture gestuali, formate dall’incontro causale e non controllato dell’acqua, del vento e della sabbia su supporti cartacei lasciati in balia delle onde del mare a contatto con i pigmenti. “Ho sempre subito il fascino dei rituali”, dice l’artista. “Può darsi che, attraverso di essi, cerchi di dare un senso di ordine alla mia vita. Nel Tao, gli elementi del vento e dell’acqua costituiscono la base di ogni armonia. L’acqua non ha ossa. Non si può rompere o contenere: è sempre in movimento. I miei quadri sono la testimonianza di un incontro tra l’acqua, la carta e il colore, che, insieme, mettono in scena una sorta di danza rituale”.
In maniera simile, il lavoro di un altro artista cinese, Liu Shangying, originario della Mongolia ma abitante a Pechino, che lavora col mezzo pittorico sul recupero della memoria ancestrale, sulla ritualità, sulla spiritualità dei luoghi e dell’ambiente naturale. Liu Shangying dipinge infatti quasi esclusivamente immerso nella natura: ogni anno si reca tra le montagne tibetane, alla ricerca di paesaggi da dipingere dal vero, su grandi tele che monta tra loro nei luoghi più impervi e più battuti dai venti, dagli agenti atmosferici e dalle intemperie. “Il suo lavoro si trasforma così”, scrive il critico italiano Alessandro Riva, che lo presenta in questa Biennale, “attraverso la ritualità del viaggio e della ricerca del luogo metaforicamente perfetto da tradurre in pittura, in un percorso simbolico di scoperta e di conoscenza, non solo dell’ambiente naturale, ma, attraverso di questo, del proprio io più profondo”. Shangying presenta in questo caso un filmato in cui racconta l’esperienza fortemente emozionale del viaggio e della pittura a contatto con l’ambiente naturale.
La relazione tra arte e ambiente naturale è il centro del lavoro anche di altri artisti: come l’italiano Desiderio, videoartista, performer, pittore oltre che dj (con il nome di ElectroWish Magnete ha riscosso molto successo qui, facendo il dj per la festa d’inaugurazione). Alla Biennale presenta una spettacolare e immensa istallazione realizzata con mille uova, messe in circolo sul pavimento a formare una forma a spirale, con al centro un guerriero di piccole dimensioni che allude a una radice ancestrale e tribale della guerra, della lotta, della conquista ma anche della conoscenza di sé e del mondo. L’uovo, infatti, è per eccellenza simbolo dell’Origine, della nascita e della rinascita in ogni forma mitologica e, in molte cosmogonie orientali, rintracciabile anche come elemento di fondamento e di nascita del mondo stesso, mentre com’è noto la forma a spirale è simbolo, fin dal mito cretese, della ricerca di sé. Desiderio in questo caso si è rifatto a una mitologia autoctona di questa zona del mondo, quella del Make Make, il mitico uomo-uccello della cosmogonia divina dell’Isola di Pasqua, che si trova proprio al largo delle coste del Cile. Altra consonanza significativa, anche un altro artista italiano, Alex Caminiti, ha realizzato grandi, suggestive sculture in ferro, sempre ispirate alle forme simboliche e mitologiche del popolo dei Rapa Nui dell’isola di Pasqua.
Accanto a queste, un’installazione sonora di un altro artista italiano, Piero Mottola, che da sempre lavora sul rapporto tra arti visive e sperimentazione sonora, e che in questo caso realizza un interessante lavoro creato sul rapporto tra architettura del museo e ambiente circostante, attraverso le suggestioni di suoni, voci, rumori. Già presente con un importante progetto alla Bienal de La Habana, Mottola è da sempre interessato alla “condizione relazionale del rumore”: “È dall’esperienza relazionale”, spiega l’artista, “che si può cominciare per scoprire una nuova musica rappresentativa del nostro tempo”.
Numerosi anche i pittori e gli scultori presenti. Tra gli altri, il pittore finlandese Hannu Palosuo, con una serie di giocosi quadri dipinti su manifesti stradali, il fantasioso surrealista argentino Luis “Beto” Martinez, con immagini fortemente suggestive dalla forte carica ironica, il pittore e scultore cileno Raul Pizzarro, che in Biennale espone volti in resina deformati da un senso di movimento, la tedesca Kirsten Mosel, che interviene sullo spazio con una grande installazione site-specifdi una forma astratta e colorata in pvc. Anche il cinese Ma Lin presenta un’installazione, di grande novità sul piano del linguaggio formale, nel quale mescola riferimenti alla tradizione accademica cinese e un chiaro riferimento ai linguaggi d’avanguardia, come quello dell’Arte Povera italiana, rivisitati però, in maniera molto originale, in toni neo-pop, con colori vivaci e modalità che rimandano al linguaggio dei cartoon: segno di un’attenzione a ciò che si sta muovendo nel campo dell’arte a livello internazionale, nel rimescolamento dei codici e dei riferimenti nuovi, senza però mai abbandonare i riferimenti identitari e le proprie radici culturali.
Complesso e fortemente originale il lavoro dell’artista spagnolo Felipe Cardeña, della cui biografia si sa volutamente poco. Come spiega il curatore della Biennale, “si tratta di un artista apolide, che percorre il mondo facendo il mimo. Attorno al suo nome sono stati messi in piedi laboratori di quadri a collage che vengono realizzati, su sua indicazione, da giovani assistenti che ne reinterpretano il lavoro, in una sofisticata operazione di ibridazione identitaria e di consapevole riflessione sul ruolo dell’artista, sulla costruzione di identità multiple nell’era del web, sull’ambiguità delle informazioni nella società dello spettacolo”. Alla Biennale, Cardeña presenta quadri dai toni e dalla composizione estremamente accattivanti, che mescolano suggestioni induiste e cattoliche, riferimenti al linguaggio dei cartoon, citazioni dalla storia dell’arte e forme astratte su uno sfondo floreale, in un generale rimescolamento visivo di taglio neopop. Interessante è l’operazione che vi è sottesa, che traspare da un cortometraggio, girato dall’artista e videomaker Desiderio (quasi a dimostrazione del lavoro collettivo e di interscambio tra artisti, che sembra felicemente attraversare tutto il corpo di questa Biennale).
Il film, dedicato proprio alla misteriosa biografia dell’artista, si intitola “Me gusta Soñar – La verdadera historia de Felipe Cardeña”, e viene proiettato qua (a Valparaíso, ndr), durante la Biennale, ma contemporaneamente anche in Brasile e a San Pietroburgo, a indicare la natura apolide e transnazionale dell’operazione, per poi “atterrare” definitivamente su You tube (a questo indirizzo). Girato a La Habana, il cortometraggio di Desiderio vede un susseguirsi di folli e incredibili voci, ricordi e racconti di gente comune, intervistata per la strada, sulla vita di Cardeña, che sembrano uscire da una pellicola surrealista. Un trionfo di bizzarrie, di esagerazioni e fantasie, degne di un racconto di García Márquez, dalla città che più di ogni altra racchiude in sé le contraddizioni, la fatica, le paure ma anche la gioia, la spensieratezza e la voglia di illusioni di tutti i paesi del sud del mondo, e che pare rappresentare magistralmente il tema di questa bellissima Biennale, magicamente sospesa tra i Contrasti della realtà quotidiana e l’Utopia del sogno.
(traduzione di Tilde Arcelli)