di Luca Beatrice
Le suggestioni prodotte dai cromatismi di albe e tramonti sono tra le più classiche icone del paesaggio e del relativo Sturm und Drang di un genere di vecchia data. Non è necessario chiamare in causa il romanticismo se, al loro compiersi, sentiamo invocato il sentimento di vagabondare nel dato naturale, spirituale prima che fisico, come atto di presenza al mondo. Poco importa se a trovare questi strabilianti spettacoli naturali non sia il sublimato uomo kantiano ma un ben più postmoderno individuo barricato su treni e macchine ad alta velocità. Da un finestrino offuscato comunemente da nebbie e fumi narcotici, dentro a un immaginario alla Blade Runner, certo non sfuggiranno le apparizioni e le sfavillanti acrobazie di nuvole e cieli.
L’illusione metafisica di architetture dechirichiane si compie insieme a visioni atmosferiche che solo il pennello di William Turner fu in grado di assurgere a icona emotiva e instabile, laddove l’instabilità del dato luminoso pareva ancora un parametro impossibile da rappresentare. Le rovine dei templi di Giorgio de Chirico sono oggi quelle montagne di detriti, gru o lampioni, primo piano di un campo lungo che comprende anche montagne e archi alpini, colline e alberi residuali a cantieri avveniristici ai margini delle città. Ripulite del disturbo industriale, restano porzioni di natura che anche il più disattento guidatore non potrà negarsi di inquadrare.
Certo il nostro living landscapeè diventato il paesaggio urbano, là dove è ammissibile un tramonto in viola o giallo acido che addomestica case, grattacieli e strade sporcate da filtri al neon di insegne e negozi; ma basta un mattino, quando ancora la giornata è notte e si apre a un sole d’inverno, per tramutare il paesaggio contemporaneo – ovvero quel purpureo cromatismo innaturale che accompagna lo stile metropolitano inquinato e un po’ temuto – in un caleidoscopio di profili dai toni così accesi da apparire simulati. L’abitudine visiva a fosfori e pixel guarda curiosa quel panorama ricoperto dal fascino di una luce che macchia di blu ciano e di rosso magenta e si riverbera nell’ombra di una natura antropizzata sì, ma solo negli occhi dell’osservatore.
Questa esperienza estetica, del paesaggio percepito, è il risultato del rapporto tra il soggetto e la sua sensazione relativa al dato ambientale oggettivo. Per l’uomo contemporaneo il paesaggio naturale è già rappresentazione e, per meglio dire, finzione; quel che resta del naturalismo, così come lo intendevano i romantici, deve fare i conti con l’occhio tecnocratico (per citare Paul Virilio). Siamo abituati a una visione ammaestrata dall’alta definizione, dal disturbo o filtro fotografico, dall’irrealtà di schermi che esaltano e amplificano gli effetti cromatici.
L’esperienza estetica del nuovo millennio abbatte i limiti tra naturale e artificiale, può apparire vero ciò che non lo è e viceversa. Allo stesso modo, le alterazioni cromatiche di Massimiliano Alioto mettono in atto questo addomesticamento transnaturale del paesaggio. Sono esperienza metafisica che colma la distanza tra un ideale paradiso perduto e l’inferno terrestre dell’epoca digitale, un mix di sublime e apocalisse, di conforto e alienazione.
Alioto è di natali pugliesi (nasce a Brindisi, classe 1972) ma gravita da tempo su Milano. Da allora, l’esperienza dell’artista ha attraversato il dato prettamente urbano per ricondursi con insistenza a quello naturale. Montagne innevate prima, mari in tempesta poi. I campi di tensione generati dal tema del paesaggio – antropico, naturale e infine digitale – hanno accompagnato il percorso di ricerca iconografica di Alioto con soggetti trattati attraverso la serialità tipica del genere pittorico. Ed è con quest’ultimo ciclo che esplora ancora una volta, e senza soluzione di continuità, le possibilità della pittura come metodo d’indagine nel campo della rappresentazione.
Massimiliano Alioto è pittore dal gesto autentico. Vive l’urgenza della tecnica come un moderno Monet che osserva, indaga, esplora; spirito indomito e instancabile, cerca tutte le sfumature che il pennello è in grado di ottenere con la giusta combinazione di esperienza e passione. Per Alioto le ninfee sono quelle inquadrature di natura macro e microscopiche dentro le quali esercita tutta la sua curiosità di uomo prima che di artista. Il suo nuovo approccio al naturalismo pittorico è però “punk” nell’accezione più contradditoria del termine. È un pirata che naviga lo spazio della tela, stupendoci, ancorché non si conosca mai l’approdo del suo viaggio creativo. Dopo cime e acque, eccolo tornare con l’esuberanza di tinte psichedeliche che non si preoccupano delle coordinate reali del paesaggio. Sono alberi percossi dal vento, dentro lagune di acqua e cielo, ma le sue alterazioni di blu, rossi e gialli – fino ai contrappunti di verde acido e fucsia – travolgono gli scenari di una luce innaturale che ha radici nell’espressionismo della Die Brücke e trova esempi nella pittura internazionale, da Daniel Richter a David Schnell, di Peter Doig e Stephen Bush.
I giochi cromatici messi in campo dal pittore pugliese possono paragonarsi al luminismo di Salvo, siciliano ma torinese di adozione, che ha anticipato la futura generazione della Transavanguardia; come Salvo, anche Alioto supera le regole della logica rappresentativa entrando nel mondo delle implicazioni contingenti che la natura produce nell’osservatore contemporaneo. Con l’interferenza del colore è stravolto il significato simbolico dei soggetti. Se, da una parte, lo spazio reale di colline e ruscelli è debitore dell’iconografia del realismo francese di fine Ottocento, in particolare di Gustave Courbet e del suo segno tumultuoso, è sporcandosi della menzogna post moderna, la stessa adottata da Salvo, che diventa ‘giardino di fantasia’. I paesaggi sono sottoposti all’intermittenza di accensioni di luci al neon, di flash di pellicole fotografiche a infrarossi, di blu ray, laser e raggi ultravioletti. L’inganno romantico di quelle albe e tramonti così irreali trova espressione nel cortocircuito di sfumature turneriane virate in immaginari proto-punk e post-atomici. È questo l’universo contemporaneo, fatto di contraddizioni e non sense, dove sogno, incubo e realtà possono confondersi fino a compenetrarsi. L’arte interpreta con la sua finzione la verità che il reale produce; lo fa con astuzia, attraverso il rigore dell’estetica. Deposita nello spettatore il compito di accedere alla visione superando il limite della rappresentazione.
La finzione è la verità degli occhi di chi guarda. Nei paesaggi di Alioto, perdendomi nelle sue scorie cromatiche, trovo un riferimento centrale che è il lavoro di Richard Mosse, Enclave, presentato alla Biennale di Venezia del 2013. Anche lì sogno e realtà apparivano confusi, per questo disarmanti. Lo scenario di un fucsia brillante e pop di immense porzioni di Africa nera è l’escamotage prodotto da una pellicola a raggi infrarossi, la Kodak Aerochrome, la stessa utilizzata dai militari del Congo per scovare i bersagli nella giungla di scenari di guerra. Uno spettro invisibile ricopre la natura immortalata da Mosse che rivela un paesaggio nuovo sulle note delle composizioni del musicista elettronico Ben Frost. Non c’è finzione, come vorrebbe l’utilizzo di Photoshop e di altri mezzi digitali: tutto è filmato con la precisione di una camera 16 mm in presa diretta. Pensando a Richard Mosse e parafrasando Nietzsche, il transnaturale di Alioto è la riaffermazione del mondo vero al tramonto di ogni sua possibile favola. Si tratta di rendere visibile ciò che sfugge all’occhio addomesticato. Alberi e prati sono irradiati da un’aria che trasporta e deposita le scorie radioattive del mondo moderno; con tocchi rapidi e leggeri, negli arabeschi di nuvole e su fondi imperfetti e non finiti, la pittura di Massimiliano Alioto stravolge la sintassi del tempo, con incidenti percettivi che trovano ragion d’essere nel qui e ora, nell’oggi. È questo il nostro paesaggio: iridescente, cupo a tratti, luminoso in altri, è sovrapposizione di sogno e realtà, alterazione e verità, transnatura e natura. È l’epoca in cui viviamo, sono le nostre albe e i nostri tramonti, irreali, emotivi, finzione che si esprime nell’apparente verità.
Massimiliano Alioto | Transnatural
21 gennaio – 21 febbraio 2015
Galleria Davico Arte
Galleria Subalpina 21 – 10123 Torino
Tel. 011 0362954
http://www.davicoarte.it/
Inaugurazione mercoledì 21 gennaio, h. 18.30