di Alessandro Riva
Per tutti – ragazze, ragazzi, uomini adulti, padri, madri, famiglie con bambini al seguito, uomini e donne di ogni età – ciò che sta succedendo in Libano in queste settimane ha un solo nome: #Thawra – Rivoluzione. Ma è una rivoluzione pacifica, una marea umana che ogni giorno, e con particolare intensità ogni week end, si riversa nelle strade della Capitale, Beirut, ma anche in centri minori, villaggi e piccole città del Libano, per manifestare e chiedere l’abbattimento di un governo corrotto, familistico, antiquato, reazionario, legato a logiche tradizionalistiche e confessionali nelle quali i giovani e i cittadini del “nuovo Libano” non si riconoscono più. Ma soprattutto per dare il segno di un forte cambiamento culturale. E non è un caso che in piazza, oggi, si contino tante, tantissime donne: giovani, giovanissime, meno giovani, di tutte le classi e di tutte le religioni. Tutte insieme, per far sentire la propria voce, per cambiare passo nella politica e nella società.
Così è nata la “rivoluzione” libanese di queste settimane: in maniera spontanea, senza leader di partito che se ne potessero appropriare (chi ha cercato di farlo, è stato espulso dalle piazze), senza organizzazioni alle spalle, senza timori e senza compromessi con la “vecchia politica” e le rigide regole che regolano i rapporti tra le confessioni religiose. Ma quella che sta vivendo il Libano oggi è davvero una rivoluzione, anche dal punto di vista culturale: dappertutto si respira infatti un clima di libertà, di apertura, di gioia, di festa, con tanti giovani e giovanissimi, di tutte le religioni e di tutte le estrazioni sociali, che si riversano in piazza tra festa, canti, musica, allegria, voglia di cambiare e di decidere.
In mezzo a questa grande festa, questa rivioluzione che ha coinvolto e coinvolge gran parte della popolazione libanese, è capitato che vi si trovasse anche un artista: Ali Hassoun, artista libanese trapiantato ormai da moltissimi anni in Italia, con ormai un’ottima carriera artistica alle spalle e molti riconoscimenti in tutto il mondo. Partito per un viaggio di lavoro (il progetto di una mostra a Beirut), Alì si è trovato, quasi per caso, nella sua terra natale proprio nel bel mezzo della rivoluzione. E ha deciso, immediatamente, che non si sarebbe sottratto: è così che giorno dopo giorno è sceso anche lui in piazza, a manifestare, a parlare e discutere con la gente, a respirare quel clima di festa e di rivoluzione che sta cambiando il volto del Libano. Poi ha deciso di immortalare questo momento storico in un’opera dipinta di getto, proprio nel bel mezzo degli avvenimenti, coi suoni, i canti, le voci, le risate dei manifestanti ancora nelle orecchie. Protagonista del quadro, una giovane eroina libanese, Pascal, che nell’immaginario di Ali è diventata il simbolo di quelle formidabili giornate.
In questa intervista, l’artista ci racconta in diretta il clima che si respirava in quelle giornate, la folla, i giovani, le donne, le manifestazioni pacifiche e gioiose, e di come ha deciso di “ritrarre”, in diretta, la rivoluzione attraverso i volti di alcuni partcipanti.
Formidabili quei giorni. La rivoluzione libanese raccontata in presa diretta
Ali, ci racconti come è nata la tua opera Freedom?
“Mi sono trovato dentro la rivoluzione per caso. Ero arrivato a Beirut il 16 ottobre, e avevo appena cominciato a sistemare lo studio per realizzare delle nuove opere per una mostra in programma per il 2020. Il giorno dopo sono iniziate le manifestazioni e tutto è cambiato”.
Che cos’è successo in quei giorni a Beirut?
“Sono stati giorni sconvolgenti per tuttti i libanesi, e anch’io ne sono stato del tutto travolto. Già ero molto emozionato per il fatto che avrei dipinto a Beirut per la prima volta dopo 36 anni, e senza neppure rendermene conto mi sono trovato nel bel mezzo di una grande, meravigliosa rivoluzione pacifica. Avevo appuntamento nel pomeriggio del 17 ottobre con il gallerista e la curatrice. Lui è riuscito ad arrivare in Vespa e ad aprire la galleria. Ci siamo seduti a conversare, osservando da dietro ai vetri i gruppi di giovanissimi che passavano con le bandiere libanesi dirigendosi verso la piazza Dei Martiri, in pieno centro. Finito l’incontro di lavoro, ho seguito il flusso della folla, fino a trovarmi in mezzo a migliaia di manifestanti il cui numero cresceva a dismisura. Alcuni gruppi stavano già bloccando le strade bruciando gomme e copertoni di auto, e molti portavano le maschere e giravano in motorino. La sera ho visto in televisione che hanno bloccato la strada per l’aeroporto e ho capito, tra emozione e timore, che il mio soggiorno avrebbe subito una violenta trasformazione”.
Tu partecipavi a cortei? Sei stato in mezzo alla folla tutti i giorni?
“Lo studio, che si trova nella zona Jall El Dib, oltre il porto, distava circa 20 minuti in auto dalla zona Hamra, dove alloggiavo, motivo per cui dovevo per forza attraversare diversi posti di blocco e spesso scendevo da un mezzo di trasporto a un altro per riuscire a passare. Così facendo, mi immergevo ogni volta in situazioni a volte divertenti, eccitanti, altre volte davvero pericolose. Ogni giorno facevo un sacco di foto e chiacchiervavo con molta gente, in mezzo ai dimostranti. La persona che mi ha fatto sentire la necessità di capire veramente la forza e l’importanza di quello che stava succedendo è stata la mia amica e collega Pascal Harb, che mi ha ospitato nel suo studio. Lei scendeva ogni giorno vicino allo studio a Jall El Dib, dove avevano chiuso la superstrada che collega la città al nord del paese, che passa in mezzo ai palazzi, e dove si affacciano uffici e attività commerciali. Chiudendo le strade, l’esercito interveniva per rimuovere le barriere a volte anche con le maniere forti. Alcuni compagni di Pascal sono stati feriti, e passavano dallo studio sanguinanti a raccontarci le ultime notizie. Da quel momento in poi mi sono sentito coinvolto e ho sentito di far parte della protesta: non potevo più sottrarmi a quei cori e a quella solidarietà sincera. A sorpresa, una sera, al tramonto hanno incominciato a cantare “Bella Ciao” con le bandiere libanesi svolazzanti. È stato un momento emozionante, di grande intensità. Ogni sera poi, al ritorno verso Hamra, passavo dalla piazza centrale Dei Martiri, dove il numero dei manifestanti cresceva fino a raggiungere il mezzo milione di persone. Sullo sfondo della piazza spiccava la grande moschea con la chiesa a fianco. Di fronte, in alto, c’era il palazzo del governo con i militari e il filo spinato. Era già Rivoluzione!”.
Che significato ha avuto questa rivoluzione, e che aria si respirava a Beirut in quei giorni?
“La gente è scesa nelle piazze in maniera spontanea e senza leader. Ognuno dimostrava il suo dissenso e gridava il suo dolore. C’era gente di tutte le età e di tutte le religioni. La gente all’improvviso si è svegliata. “Basta con la corruzione, cada il regime con il suo vecchio sistema basato sulle etnie e sullo spauracchio della guerra civile!”, urlavano tutti. “Restituite i soldi sottratti al popolo per soddisfare i benefici personali e famigliari dei capi politici, nascosti nelle banche in Svizzera o altrove!”. I giovani si erano informati, soprattutto attraverso i social, sui propri diritti, e non volevano più tacere. Si respirava una formidabile aria di libertà e di solidarietà, con un fastidioso pizzicore alla gola per l’odore acre delle gomme bruciate nei giorni precedenti, incendi cessati spontaneamente dopo la grande affluenza, e la sensazione di potercela fare. Era iniziata la disobbedienza civile, nonostante gli sporadici attacchi dei centauri degli Hezbollah e del movimento di Amal e di altri gruppi fedeli ai capi, che tentavano di distruggere le tende dei manifestanti che dormivano in piazza o di dare fuoco al pugno alzato, simbolo della rivoluzione”.
Com’era la gente che si riversava in piazza?
“Per la prima volta ho notato la presenza massiccia delle donne. Gruppi che reclamavano la fine del maschilismo, la conquista dei diritti delle donne sul lavoro e il diritto a non essere molestate per come vestono o per come vivono. C’erano anche tantissimi giovani, studenti e addirittura gruppi di sordomuti che volevano partecipare attivamente. Mi ha sorpreso l’alto livello civile delle persone e la loro decisione di cacciare qualsiasi esponente di partito al governo che volesse cavalcare la rivoluzione. Lo stesso accadeva per gli inviati dei media nazionali che cercavano di mettere in cattiva luce i manifestanti, i quali si rifiutavano di lasciare interviste, coprendoli di ridicolo. La novità fantastica, per me, è stato il rendermi conto che eravamo sunniti, sciiti, drusi, cristiani e alawiti, tutti insieme contro il sistema politico confessionale e tutti decisi ad essere cittadini con un’unica bandiera: quella del Libano”.
Come hai deciso di realizzare in diretta un’opera che celebrasse quei giorni? E come hai deciso il soggetto e la composizione dell’opera?
“Dovevo prendere una decisione: rimandare il mio rientro in Italia e cambiare soggetto rispetto al progetto per il quale ero andato in Libano. La pittura mi ha messo davanti a una decisione, costringendomi a prenderla al volo: e così è stato. Un amico artista mi ha portato la tela la mattina presto a Hamra, ho comprato gli acrilici “Brera” ed ho iniziato a dipingere tirando la tela sul muro dello studio. Ero immerso e completamente preso dall’opera, e intanto sentivo i rumori della rivoluzione che premeva fuori dallo studio. Ho composto l’opera lavorando dalle immagini che ho fotografato in piazza, creando una scena sintetica di ciò che ho visto e sentito”.
La ragazza in primo piano è davvero una delle protagoniste alle proteste o è una modella “simbolica”?
“Si, Pascal, il soggetto principale dell’opera, è una donna carismatica e molto seguita. È stata capace di prendere decisioni importanti sul terreno, compresa la cacciata di un noto politico che tentava con i suoi di cavalcare la protesta. Era presente tutti i giorni in piazza anche sotto la pioggia: una volta ha messo la sua auto di traverso per non far fallire il blocco dei primi giorni. È l’immagine della donna libanese consapevole e che spera in un Libano nuovo e libero”.
A quali riferimenti iconografici hai pensato? Il riferimento a Delacroix e alla sua Liberté guidant le peuplesembra esplicito… Così come il richiamo a molta pittura sociale ottocentesca, a cominciare dal Terzo Stato. Ti sei ispirato direttamente a questi quadri e a queste atmosfere?
“In piazza vedendo il coraggio delle donne che avanzavano nelle prime file mi è subito venuto in mente Delacroix… A parte il legame storico del Libano con la cultura francese, mi sembrava che la piazza parlasse il linguaggio di quelle opere d’arte: grande desiderio di libertà e di giustizia di un popolo unito contro i sedimenti centenari del feudalismo tramandato, che controllava il popolo attraverso i capi religiosi e di clan confessionali o settari. Certo, le manifestazioni sono pacifiche e le proteste sono di carattere di disobbedienza civile. I libanesi sono consapevoli oggi del rischio che la violenza possa riportare l’incubo della guerra civile”.
Quali altri elementi sono importanti nel tuo dipinto?
“Ho voluto far risaltare l’emozione e la gestualità dei protagonisti del dipinto sui vari piani dell’opera. Dipingendo ad acrilico ho lavorato con una certa velocità di esecuzione sovrapponendo il colore: le vesti fiorite delle donne a contrasto con il fuoco ed i fumi della rivoluzione e del filo spinato”.
Credi che l’arte oggi possa avere ancora una funzione politica e sociale?
“Ultimamente in Europa sembra che la tendenza non sia questa, perché è soprattutto il mercato a dettare le tendenze. Io credo che gli artisti debbano essere liberi di fare ciò che sentono senza farsi condizionare. Per me la realizzazione di quest’opra, “Freedom”, è un modo di riprendere possesso dell’arte o meglio di farmi travolgere da essa!”.
L’arte allora può ancora “salvare il mondo”? Può contribuire a sollevare le coscienze?
“Penso proprio di sì: anche se in apparenza le coscienze sembrano sopite, l’arte ha sempre il potere, e anche il dovere, di scuotere e di sorprendere. A cominciare da se stessi”.