di Luca Beatrice

Ogni volta che ci troviamo di fronte al lavoro di un artista che, esprimendosi attraverso le immagini, chiameremo per semplificare “figurativo”, si ripresenta una questione che divide la critica e gli appassionati d’arte.
Ovvero, dove poniamo il limite che distingue un pur ottimo prodotto, realizzato con cura e perizia artigianale, da un’opera che possa ragionevolmente aspirare a essere considerata arte contemporanea. La pittura, infatti, dopo il rivolgimento epocale delle avanguardie storiche di primo Novecento, ha dovuto costantemente reinventare se stessa per non correre il rischio di venir liquidata come tecnica vetusta, inadeguata a rappresentare il traumatico cambiamento dei tempi. Con l’introduzione prima dei materiali anomali quindi dei new media, con il dominio della riproducibilità tecnica al posto del fatto a mano, con il superamento del bidimensionale e l’espandersi nello spazio, alla pittura è rimasto un ruolo tutto sommato marginale nei linguaggi del contemporaneo. Eppure, nonostante la diffidenza (spesso il preconcetto), rimane di gran lunga il tipo d’arte più praticato, stimato e collezionato. Sulla ragione di tale primato, che dunque prescinde in parte dal peso della critica, bisognerebbe indagare persino in chiave psicologica, poiché un quadro ha la capacità di arrivare al centro senza filtri né mediazioni più di qualsiasi altro. Davanti a un’opera che incontrerà il nostro gusto non avremmo dunque nessuna remora nell’utilizzare la parola “bellezza”, e l’analisi a questo punto potrebbe anche fermarsi qui. Bello è termine pericoloso eppure ci piace usarlo: la pittura di Alessandro Papetti è straordinariamente bella.

Papetti ci lavora da oltre vent’anni su tale enigma: può ancora essere legittimata nell’arte di oggi la bellezza, senza per questo cadere in atmosfere retrò, deliberatamente fuori moda e anacroniste? Nonostante la potenza delle sue immagini e l’immediata riconoscibilità del suo stile, Papetti è concentrato soprattutto sulla pittura come fatto linguistico e pura ricerca. Il perimetro che gli offre la tela è la palestra per sperimentare tensioni, fratture, discontinuità, contraddizioni; una superficie vibrante, nervosa, che avverte il senso del limite ed è tesa al suo superamento.
In ogni opera l’artista cerca e lascia dietro le tracce di qualcosa di sé e dunque i dipinti contengono, inevitabilmente, frammenti di autobiografia come le pagine di un romanzo per uno scrittore. Se applicassimo le categorie della critica letteraria (o cinematografica) Papetti risulterebbe senza dubbio un autore e non un artista di genere.

La differenza sta nel fatto che il primo non è uno specialista, non parte dalla narrazione e non si fa inglobare in una tendenza; per contro nutre l’ambizione di riuscire a misurarsi con tutto, accettando la sfida di affrontare, di volta in volta, la scena d’interno o il paesaggio, il corpo o il volto, la metropoli o la natura, l’architettura o lo spazio vuoto in cui far nuotare le proprie figure.
Dal punto di vista sintattico Papetti è pittore “centrifugo”, nel senso che l’organizzazione del segno parte da un centro individuato nella tela per espandersi verso la periferia. Nei suoi quadri assistiamo all’irrompere di un corpo nella quiete: l’ingresso fisico dà luogo a un mutamento irreversibile e caotico, una sorta di rivoluzione formale ed esistenziale. Da quel momento in poi nulla sarà più come prima e le sue figure enigmatiche, misteriose, gelide, modificheranno per sempre l’equilibrio statico del paesaggio.

Artista di straordinaria abilità tecnica, virtuoso così sicuro di sé che quasi non ama darlo a vedere, Papetti rifugge dalla linea darwinistica secondo la quale esiste un’evoluzione all’interno di ogni singola poetica. Ama scegliere i temi, lavorarci su, abbandonarli e poi riprenderli in un movimento pendolare di andate e ritorni. Per questa mostra, incentrata su una trentina di “capolavori” scelti all’interno del suo repertorio storico e recente, recupera dipinti rimasti a lungo nello studio e dunque inediti, insieme ad altri quadri con un’importante storia espositiva. E’ il caso, ad esempio, di Acqua del 1999, situazione a lui estremamente congeniale che rappresenta il rapporto tra l’immensamente grande, lo spazio illimitato, infinito, e la massa fisica umana che di contro rivela tutti i suoi limiti. Ecco, si potrebbe prendere proprio questo “vecchio” lavoro allo scopo di individuare una prima traccia autobiografica nella consapevolezza di quanto sia difficile e ostica la lotta contro il limite in cui siamo costretti: limite del tempo, dello spazio, dell’età, della storia, dell’arte stessa, di noi. Pensiero che condivide con alcuni grandi maestri della pittura tedesca: come loro Papetti non teme di affrontare le grandi dimensioni, fino a sfidare formati giganteschi, ipertrofici persino. Su questo stesso tema, e sull’irresistibile attrazione nel tentare di rappresentare una forma liquida, impapabile, incorporea, continua a riflettere in lavori più recenti su uno schema analogo: le Estati e le Assenze (2012), il Notturno del 2011, la straordinaria Piscina del 2006.

All’inizio dello scorso decennio va collocato il Ritratto di Antonio (2001), figura dolente in uno spazio claustrofobico e soffocante, nonostante i pochi dettagli disseminati (la forma irregolare bianca, forse un lenzuolo, cambia completamente il destino del quadro ribaltandone il centro visivo). Accade il contrario, invece, nei Nudi, dove emerge la ricerca della sensualità, dell’erotismo niente affatto dissimulato, che lo pone di fronte a un’ulteriore sfida: come si può riprodurre un corpo femminile nel terzo millennio con taglio contemporaneo e nuovo rispetto all’ingombrante tradizione pittorica? Gli viene in soccorso la luce, ardita e sperimentale, capace in un solo colore di immergere la forma in una determinata ora del giorno: nessun orpello ma sintesi estrema, esattamente come chiede il nostro tempo.
Tra i temi ricorrenti nella poetica di Alessandro Papetti troviamo le vedute metropolitane, che dicono di uno sguardo cresciuto nel grigio delle strade, tra le stazioni, gli snodi, il caos, la penombra e le prime luci riflesse tra l’umido e le pozzanghere. Qui Papetti raggiunge un intenso lirismo visivo di chi della città è innamorato, parte integrante del tessuto, ne comprende la vitalità e le contraddizioni, la sua Milano e le testimonianze dei viaggi, New York, Tokyo ad esempio, cui si contrappone, periodicamente, il bisogno di natura inteso come ampi spazi vuoti dove anche il gesto pittorico si libera, si dilata, non trova ostacoli sul suo cammino (Grande paesaggio del 2011 è forse il più bello), esonda.
Ciò che si innalza su tutto, forte richiamo ancora una volta del sé, è il senso di pittura come deriva: le cattedrali contemporanee di archeologia industriale (Altoforno, 2003; Ile Seguin, 2007) e quelle barocche, le une a esprimere il senso di abbandono le altre l’immensa potenza del soprannaturale (Angeli di pietra, 2012). E poi le navi in costruzione nei cantieri, ché ci sono sempre mari da solcare. Nuovi viaggi, altre sfide da affrontare.

I quadri di Alessandro Papetti sono stati protagonisti di diverse mostre nel 2013. Tra le principali, ricordiamo la mostra che si è svolta a Berlino, presso la Halle Am Wasser @ Hamburger Bahnhof, nell’aprile-maggio del 2013, quella a Johannesburg, Sud Africa, alla Everard Read Gallery, dal 22 maggio al 4 giugno 2013, e quella alla Galerie Alain Blondel di Parigi, da 7 al 30 novembre 2013.
Il testo di Luca Beatrice qui riportato è stato redatto in occasione della mostra personale tenutasi presso la Galleria Contini di Cortina d’Ampezzo nel dicembre del 2012.