Agostino Arrivabene o della pittura al nero

di Pietro C. Marani

l'uomo salamandra 2014 olio su legno cm 50 x 35

L’immagine metamorfica di Orfeo, nel dipinto I sette giorni di Orfeo, forse il capolavoro di Agostino Arrivabene (1996), ci aveva già avvertiti delle straordinarie capacità evocative dell’artista, non solo a causa del soggetto, che ben si prestava a riassumere in sé la potenza struggente della musica e a suggerire l’aspirazione ad una bellezza ideale, forse già però minata da qualche oscuro male. Ma soprattutto per quel che il dipinto non fa vedere, ma suggerisce: la musica melodiosa che vibra nell’aria, per un istante, perché muore non appena eseguita, e il canto lamentoso di Orfeo, ammaliante ma già malinconico, quasi che il figlio di un re e di una Musa (Polimnia? Calliope?) si fosse già addormentato, un sonno che è dunque presagio di morte. La musica che svanisce, l’amore che sfiorisce, il canto che diventa ronzio di api nella mente e conduce all’abbandono delle membra, forse ad un sonno dal quale non ci potrà mai più risvegliare. Mai una pittura, forse, dopo i Preraffaelliti, aveva con tanta eleganza e sottigliezza cercato di far quadrare i conti tra la Vita e la Morte, tra l’Arte e il Sogno, tra l’effimero e l’eterno.

Agostino Arrivabene, I sette giorni di Orfeo, 1996.
Agostino Arrivabene, I sette giorni di Orfeo, 1996.

Perché, sia chiaro, anche in questo caso l’arte vince su tutto: vince sulla musica, perché, come nel Paragone tra le Arti di Leonardo, la pittura, al contrario della musica che muore, si fa invece eterna, specie se vetrificata, come sembra di scorgere in questo meraviglioso tondo dove l’olio si è tal punto mutato in qualcosa di traslucido da sembrare smalto, vetro. E vince anche sulla morte, perché questo tondo rimarrà nella storia, dopo Agostino, dopo tutti noi, perché è pura pittura, nella sua enciclopedica esibizione di carni adolescenziali, bocche tumide, lustri, bagliori metallici, sbalzi e nielli (oppure piume e muschi?), fiori, gigli o campanule che siano, e di roselline rosse che, quasi dotate di vita e di “affetti” interiori, con moti propri si piegano sulle membra del giovane Orfeo, avvolgendone braccia e spalle: non si sa se a proteggerne le carni o a succhiarne, come ventose-sanguisughe, qualche goccia di sangue (quel che ne resta) da un corpo già diafano, ma i cui capelli rilucenti ricordano certe cortigiane alla Bartolomeo Veneto. Così che alla fine, quasi non ci interessa neanche il soggetto e la sua aulica mitologia e si è avvinti dalla capacità pittorica dell’artista che ci ha messo un mondo, in quel tondo, anzi, un inventario del mondo naturale e artificiale, quasi un “microcosmo”, in cui piace perdersi.

Agostino Arrivabene, Senza titolo. 2013, olio oro in foglia su legno, cm 47 x35,5.
Agostino Arrivabene, Senza titolo. 2013, olio oro in foglia su legno, cm 47 x35,5.

Poi l’artista ci ha gettato nel buio della più profonda disperazione e paura: nello Psiconauta (2007), il corpo abbandonato di un uomo giace nudo in un antro buio; ne vediamo solo il braccio sinistro, la mano destra e il corpo dalla vita in giù, appoggiato ad un cuscino e disteso su una sorta di lenzuolo, o papiro senza fine, che sembra iscritto, ma forse non è così: sono solo pieghe e fibre di un sudario che non ha avvolto ancora il corpo, che – dunque – è ancora vivo ma forse in preda ad allucinazioni. L’antro è scavato con precisione nella roccia, ne leggiamo le stratificazioni e le sedimentazioni fossili davanti alla polla d’acqua dorata. Quanti millenni ha attraversato questo Psiconauta? Il suo viaggio è iniziato forse ancor prima che San Giovanni Evangelista visualizzasse la sua Apolicasse nella grotta di Patmos, e il suo spirito ha sostato, come il Marat di David (ecco il busto che manca al dipinto di Arrivabene!) in una stanza fredda e buia, prima di apparire ai due geni del Romanticismo Géricault e Delacroix. Per il primo si è mutato nelle membra livide dei morti che stanno per scivolare via dalla Zattera della Medusa; per il secondo ha sostato con raccapriccio davanti al campo di Scio, identificandosi – specularmente – con l’uomo agonizzante sulla sinistra nel Massacro. Eppure, eppure… c’è un’aria fredda e gelida che spira dal fondo dell’antro, e l’uomo sembra coprirsi le nudità per proteggersi: qualcuno arriverà forse ad avvolgerlo in un panno e a salvarlo.

Il viaggio della mente di Agostino Arrivabene nei miti e nei luoghi della classicità è continuato. L’artista ci ha regalato paesaggi e visioni di luoghi del mondo antico, dall’Oriente pre-classico, alla Grecia e alla romanità, che si impongono per la loro siderale bellezza, non credo mai prima raggiunta da altro artista. Ne cito solo due veramente memorabili: Batteri al Foro di Augusto (2009) e Trasfigurazione a Caracalla sotto il Cielo di Orione (2009-2010). Apparentemente algidi, tombali, inquietanti, dove anche lo spazio e l’aria appaiono surgelati: una visione delle antichità di Roma come osservata da una capsula spaziale. È lo stesso effetto di vertigini e di totale sperdimento che abbiamo visto nel film Gravity di Cuaron (2013), con il conseguente simile desiderio di porre fine a questa sensazione di freddo gelido che ci assale e di tornare a toccare la calda terra. In sostanza: la mancanza di un muschio, di una muffa o anche di un lichene (non possono vivere, c’è troppo freddo), solo compensata da uno sciame di batteri (resistenti a qualsiasi antibiotico), ci induce a pensare che questi monumenti siano dotati di vita propria, indifferenti alle avversità climatiche, inattaccabili, e che siano sacri in se stessi, trasfigurati o sublimati in essenza, in attesa di tornare ad essere quel che erano. Un giorno. È solo una pausa, ma millenaria. Infatti ogni tanto qualcosa succede: come in Miracolo al Foro di Augusto (2008), dove, in un contesto che davvero trasforma la petrosa Isola dei morti di Boecklin – da cui spiumano alti cipressi – in un architettonico emiciclo o esedra, come una saetta appare finalmente la vita: sciame questa volta non di batteri, ma forse di spermatozoi. È singolare come la visione del mondo antico di Arrivabene sia così diversa da quella solare e mediterranea di tanti altri artisti dell’età moderna, e anche il richiamo evidente all’ Isola dei morti di Boecklin (un quadro che Arrivabene ha così amato da farne una copia in gioventù) non vale più di tanto: così come Mat Collishaw aggiunge ombre e luci a Boecklin (in Island of the Dead, LCD screen, hard drive, specchi, 2008), ne movimenta le masse e ne potenzia il volume attraverso il lento movimento rotatorio di un fascio di luce retrostante, così Arrivabene sottrae energia, scarnifica, disseziona, raggiunge lo scheletro dell’architettura e anche il nocciolo della questione.

Agostino Arrivabene, prefica mutante I°, 2014, olio su legno, cm 50x35.
Agostino Arrivabene, prefica mutante I°, 2014, olio su legno, cm 50×35.

Rivisita quindi in chiave onirica e delirante le Metamorfosi di Ovidio, presentate nel 2008 in una surreale esposizione da Vittorio Sgarbi, che giustamente sottolinea i due poli entro i quali l’arte di Agostino Arrivabene oscilla: la luce degli dei e le tenebre dell’uomo; si cimenta con il tema della Vanitas, cui ha dedicato una serie di memorabili variazioni; con temi esoterici, con le più remote religioni e credenze e, allo stesso tempo, con i problemi della psiche e con i più micidiali virus dell’età contemporanea, illustrando, ad esempio, quello dell’HIV.

Il versante tenebroso, ma al tempo stesso più ironico, della sua ricerca è dato di vederlo in Lucifero (Pesante ho l’Anima di una tenebra perenne), un dipinto portato avanti dal 1997 al 2007, che altro non è se non una versione acefala della Gioconda nuda di Leonardo al posto della testa è il buio più profondo e

cupo, anche se la figura (siamo sicuri si tratti di una donna? O è l’eterno androgino? Peraltro anch’esso tema leonardesco ) reca fiori che si dispongono, sempre animati di vita propria, davanti e tutt’intorno, fino a farle quasi una corona nello stile di un’antica civiltà meso-americana. Il contrasto tra questa Persefone-Gioconda e l’inventario botanico che le sta intorno non potrebbe essere più stridente e più nuovo: l’abisso nero che si spalanca al posto della testa è ancora più forte e inquietante dell’idea Gioconda-Vampiro che muore e rinasce cantata da Walter Pater. Ma Agostino ci ha abituati a questi calembours: il suo Rea et Ade Majestatis del 2010, è l’adattamento metamorfico di un celebre dipinto di Jean Fouquet che solo poteva ispirargli questa femminilità crudele, algida ed esibita accompagnata da un Bambino-corallo che lei sta, molto probabilmente, per divorare.

In questa nuova Mostra, Agostino Arrivabene sviluppa alcune delle sue tematiche-chiave, ma andando sempre oltre: dai paesaggi ancestrali in cui storia mito e inconscio si fondono, alle metamorfosi dei suoi personaggi, non rinunciando all’idea ancestrale del Mito. I Dioscuri, o il Narciso, si vanno ora trasformando non più o non solo in rossi coralli ma in speci botaniche rarissime (desunte dalle tavole delle Kunstformen der Natur di Ernst Haeckel), e dalle schiene delle figure, sorta di prefiche mutanti, scorticate come in un atlante anatomico del Seicento (e infatti ispirate dalle stampe di Bernhard Siegfried Albinus) fioriscono escrescenze filiformi o piante acquatiche, meduse, alghe ondulate e mosse, fino a rivisitare il tema della Testa di Medusa stessa coi suoi serpentelli Tornano anche i prestiti o le citazioni camuffate o quasi, come la ripresa dello struggente paesaggio nella Pala Portuense di Ercole de’ Roberti ora nella Pinacoteca di Brera (già apparso in un paesaggio di Arrivabene del 2003) che qui riappare sia nel Sogno di Asclepio, ispirato dalla lettura dei Discorsi sacri di Elio Aristide, sia nell’ Immagine del Vespro dove, dietro alla tempesta corporea dei germogli che avviene nel corpo del ragazzo (una sorta di Narciso germinante), riappare l’immagine incantata del Porto di Ravenna. L’osservatore più avvertito ritroverà gli echi berniniani dell’ Apollo e Dafne, oppure, in alcune stupende teste “fiorite”, quello dell’Arcimboldo e delle nature morte dei pittori fiamminghi, ma il gioco dei rimandi non esaurisce l’attualità della sua pittura. Egli non è un pittore citazionista, né un postfigurativo.

Insomma, Agostino Arrivabene ha attraversato molti snodi della pittura moderna, attualizzando modelli e iconografie a tematiche di grande rilevanza e, se mai si volesse mettergli un’etichetta, potremmo forse definirlo come l’ultimo dei grandi pittori surrealisti che ci pone dei quesiti e degli enigmi, ai quali non è obbligatorio dare risposte. Ma là dove i grandi pittori metafisici e i surrealisti attualizzavano il mito con il ciarpame della vita contemporanea e vestivano i loro anti-eroi di abiti moderni, Arrivabene lo evoca dal buio interiore di personaggi senza tempo, nudi, indifesi, feriti e mutanti, loro malgrado, dallo stato umano a quello bestiale a quello botanico o minerale. I miti degli antichi, l’inconscio e il vuoto, gli abissi della mente come condizione di perenne disagio e malattia sono infatti soltanto gli elementi a cui egli, artista del suo tempo, risponde con i mezzi che gli sono propri e di cui è signore e principe. Principe delle tenebre e signore della tecnica.

Agostino Arrivabene |  Vesperbild

Galleria Giovanni Bonelli  Milano

Via Luigi Porro Lambertenghi 6, 20159 Milano

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23 maggio | 26 luglio 2014

Inaugurazione giovedì 22 maggio 2014, ore 18.30