Addio Ma Lin, ottimo artista e formidabile costruttore di ponti tra Italia e Cina

Ma Lin ci ha lasciati questa notte. Era un pittore fantastico, un grande e carissimo amico, un paziente e infaticabile tessitore di relazioni intricate e spesso complicatissime tra artisti, critici, galleristi, esponenti delle istituzioni culturali e artistiche italiane i loro omologhi cinesi.

Io l’avevo conosciuto nel 2013. Me l’aveva presentato Matteo Basilé, che Ma Lin stimava e considerava, a ragione, uno tra i migliori artisti italiani contemporanei.

Ma Lin con Matteo Basilè in Cina

Con lui, e con loro, avevamo creato, progettato, inventato una grande mostra che attraversava alcune tra le migliori esperienze della nuova arte italiana e cinese, che si è tenuta all’Arsenale di Venezia in occasione della 55a edizione della Biennale (Crossover, A Dialog Between The Chinese School Of Hubei And The New Italian Art Scene, a cura di Ji Shaofeng e Alessandro Riva). Fu un lavoro immane, arduo, ma nel complesso assolutamente esaltante, da portare a termine in pochissimo tempo e con una squadra risicata all’osso. Ma ce l’abbiamo fatta alla fine, e ne eravamo più che soddisfatti, felici. Da lì è nato un rapporto che non si è mai fermato, e ogni anno, insieme, con Ma Lin e con Basilé, complice e instancabile compagno di strada assieme a suo fratello Davide Sbastian, abbiamo creato mostre e partecipazioni di artisti italiani a mostre collettive, festival, progetti in Cina, e viceversa. Con Ma Lin, ho conosciuto decine e decine di artisti cinesi, di docenti, di rappresentanti ufficiali della cultura e delle istituzioni museali cinesi: a Wuhan, sua città natale, abbiamo creato imponenti mostre museali (Pop Up Italian Show, Hubei Museum of Art, Wuhan 2015), partecipato a Festival artistici (International Art Festival, Hubei), abbiamo preso parte e portato la nostra testimonianza di critici italiani e convegni e forum internazionali d’arte, abbiamo inventato progetti e messo in campo pubblicazioni importanti.

Ma Lin con Davide Sebastian, Tommaso Cascella, Matteo Basilé

Per anni, Ma Lin ha messo da parte il suo ego, la sua voglia di presentare ed esporre il proprio lavoro pittorico, che amava alla follia e che costituiva il suo rifugio e la sua speranza di riscatto e di riconoscimento anche come artista, per privilegiare invece e mettere al primo posto un’intensissima attività di relazioni, di progetti, di esperienze che andavano ben oltre la semplice progettazione di mostre, di libri e di collaborazioni professionali tra artisti cinesi e italiani. Per anni, il suo lavoro testardo e certosino è stato quello di costruire ponti, relazioni, amicizie, di semplificare rapporti che le differenze culturali, il gap linguistico, le diverse abitudini e concezioni del lavoro tendevano invece fatalmente a complicare. Eppure, Ma Lin non si lasciava demoralizzare, non si arrabbiava, non litigava mai con nessuno: non si fermava, è il caso di dirlo, di fronte a niente. Generosissimo – lo diciamo senza retorica e senza abbellire, lui morto, le sue qualità umane –, Ma Lin, per risolvere problemi, per dare una mano e sveltire le cose, spesso ci rimetteva del proprio, apriva, cioè, letteralmente il portafoglio, senza dubbi né tentennamenti: non una volta, ma diverse volte, è capitato che pagasse lui per me un biglietto aereo, una cena, una notte in un hotel per una permanenza improvvisa e non prevista da qualche parte: io, sempre un po’ più tirato coi soldi, lui che invece a tratti guadagnava bene portando i turisti (turisti speciali: sempre e solo artisti, curatori, direttori di musei o suoi colleghi d’università, dal momento che l’instancabile e molteplice attività non lo esimeva dall’andare a insegnare in Cina tecniche pittoriche per uno o due mesi l’anno in Accademie o Università cinesi, a Guangzhou, a Pechino o a Wuhan); sempre anticipando e sborsando del suo, dunque, quando era necessario e non era possibile aspettare rimborsi o anticipi per qualche lavoro, e concludendo poi, sempre, con un: “non c’è problema, ci sarà tempo per sdebitarsi”; non sapendo, come nessuno di noi sa mai, che il tempo non è infinito, e a un tratto finisce, così, all’improvviso, e ciò che è stato è stato, e non si può più cambiare.

Ha aiutato, Ma Lin, ha smosso montagne, ha tirato fuori soldi quando c’era la necessità di tirarne fuori: gliene dò atto qua, pubblicamente, giacché non mi è stato dato modo di farlo di persona, e di ringraziarlo per un’ultima volta da vivo. Lui che, giovane e neodiplomato pittore in Italia, aveva avuto amici che a sua volta l’avevano aiutato, e mai se n’era dimenticato, mai si dimenticava di raccontare di come pochi e cari amici l’avessero aiutato nei momenti difficili, quando ancora non aveva trovato il modo e la maniera di far diventare la sua passione per l’arte un lavoro. Non si dimenticava di chi l’aveva aiutato, e a sua volta, lui, ora aiutava: per un impulso naturale, spontaneo. Ma Lin voleva fare, voleva creare amicizie, portare l’arte italiana di là, nei musei e nelle gallerie d’arte, e portare i cinesi qua, nei musei e nelle pinacoteche italiane, a visitarli e, quando riusciva, anche ad esporre. In pochi, va detto, conoscevano come conosceva lui la pittura, l’architettura e la scultura italiana del Rinascimento, lui che ne aveva fatto non un mestiere ma una vera passione: prendeva la sua macchina e attraversava l’Italia, gli si telefonava ed era un giorno a Urbino, un giorno a Firenze, l’altro a Roma, l’altro ancora a Siena o a San Gimignano: ogni volta per accompagnare qualcuno, un artista o un direttore di museo o preside di facoltà di qualche università cinese, e la tappa dopo era immancabilmente Milano, e allora ci si incontrava sul sagrato del Duomo, tra una visita al Museo del Novecento o a Palazzo Reale, e poi si andava a mangiare in un ristorante, immancabilmente cinese, con lui e il suo artista o direttore di museo, e si parlava, si parlava, lui traducendo, e si stringevano così ogni volta nuove amicizie, nuove relazioni, progettando mostre e visite a studi di artisti, e immaginando viaggi e trasferte per far conoscere la nuova arte italiana in Cina, dove, curiosissimi, molti cinesi, assicurava lui, volevano conoscere i nuovi sviluppi della pittura italiana. Me lo assicurava, Ma Lin, riandando con la memoria a quando, oltre trent’anni fa, portò lui in Cina per la prima volta Bonito Oliva, per fare da tramite alla pubblicazione del suo libro più importante, La transavanguardia italiana.

Ma Lin e Shi Liang

Negli ultimi anni, con Ma Lin ho conosciuto un pittore cinese straordinario e, come Ma Lin, generoso e appassionato, Shi Liang. È stato lui a darmi la notizia della sua scomparsa, stanotte, con uno straziante messaggino dalla Cina che mi ha svegliato e non mi ha più fatto dormire: uno di quei messaggini che non vorremmo mai ricevere. Con Shi Liang, che ha esposto con Ma Lin negli ultimi tempi in diverse sedi istituzionali italiane, in questi anni abbiamo girato l’Italia e visitato studi di artisti: di Tommaso Cascella, a Bomarzo, e poi di Nicola Verlato, a Roma, di Nicola Samorì, a Bagnacavallo, di Aron Demetz, a Selva di Val Gardena; e di altri. Sempre con Shi Liang e Ma Lin, avevamo da qualche tempo progettato la pubblicazione di un grande libro, di oltre 300 pagine, da pubblicare in Cina, dedicato proprio al lavoro di Nicola Samorì, che vedrà presto la luce: ma del quale, purtroppo, il primo che vi ha creduto, e cioè Ma Lin, non potrà vedere l’esito finale.

Era un sognatore, Ma Lin, un instancabile sognatore. Non c’era problema che, seppure complicato, potesse sembrargli insormontabile. Ma Lin lavorava con tenacia, con entusiasmo e con passione, perché credeva ciecamente che ciò che stava costruendo, i ponti che stava gettando tra il suo paese natale, la Cina, e l’Italia, il paese in cui si sentiva a casa, che l’aveva accolto e in cui aveva studiato, da ragazzo (si era diplomato all’Accademia di Bologna con Concetto Pozzati, nei primi anni 90), fossero obiettivi più grandi, più duraturi e più importanti di un semplice scambio di favori o di relazioni occasionali tra uomini e artisti di paesi tanto diversi e lontani l’uno dall’altro. Per lui, quegli scambi instancabili e continui, quel portare gli artisti e i direttori di musei cinesi in Italia, quel portare gli amici, i professori universitari, gli artisti cinesi tra le chiese, i musei, tra i più grandi capolavori del Rinascimento italiano come se fossero un pezzo fondamentale e imprescindibile della propria storia e della propria formazione culturale, e d’altra parte quel portare gli artisti e i curatori italiani di là, in Cina, a esporre nei musei e nei Festival internazionali cinesi, erano più di un passatempo o di un lavoro: erano un’esigenza profonda, una necessità di vita e di crescita umana, prima ancora che culturale.

Ma Ma Lin era anche un grande, ottimo pittore. Non voleva, forse, anche lui come tanti altri, farsi chiamare solamente “pittore”, in quel suo cercare una scappatoia a un realismo a cui pure la sua profonda conoscenza tecnica l’avevano naturalmente portato, e il cercare altre forme di espressione, più installative e contemporanee, trattando legni antichi e sovrapponendoli ai quadri e alla pittura per formare strane sculture contemporanee, opere aggettanti dalla parete che mescolavano realismo e astrazione, nel perfetto equilibrio tra il fitto reticolato dei segni sui volti e sui corpi dipinti, e la gioia e la linearità dei colori puri sui legni che formavano la stessa struttura dei suoi bizzarri e bellissimi “quadri scultorei”.

La sua era, ed è e sarà per sempre – poiché l’arte sopravvive ai suoi creatori –, una complessa trama di riferimenti e di incroci tra il realismo dell’immagine dipinta e la linearità delle linee che sottendono la forma rappresentata. La fitta rete di legni, di ferri, di colori, quasi sempre tendenti all’astrazione geometrica ma che prescindono da qualsiasi idea di razionalità e di perfezione, essendo sempre costituita da legni e materiali vecchi, malandati, a volte anche antichi, spesso bruciati o crepati, quasi fossero totem di un’epoca “altra” che sembra sempre sfuggire alle delimitazioni di tempo o di spazio, sono il simbolo stesso della volontà dell’artista di prendere sempre più le distanze dalla raffigurazione, quasi a installarvi intorno uno schermo protettivo che parlasse non più o non solo al nostro occhio, ma anche al nostro spirito, al nostro pensiero e alle nostre emozioni. È come se Ma Lin, volendo frapporre tra il nostro sguardo e l’immagine una struttura geometrica di legni e di altri materiali, riducendola così a una complessa sintesi compositiva che tende sempre di più all’astrazione, volesse prendere le distanze dalla rappresentazione, inserendo fra sé e le immagini della realtà degli elementi di disturbo, che ci permettessero di non lasciarci godere appieno dell’illusionarietà di ciò che vediamo.

Come, attraverso un percorso spirituale o filosofico, si può arrivare a prendere atto della verità sostanziale del reale solo trascendendolo e accostandosi alla struttura sotterranea che regge la vita del mondo e della natura, così anche nei lavori di Ma Lin, il segreto della realtà sembra lentamente svelarsi solo leggendovi, come in una formula matematica, le strutture celate sotto il velo di Maya della rappresentazione: i cerchi, gli ovali, i totem che si ergono da terra, con aria insieme antichissima e moderna, reggendo, come arcaici strumenti rituali, l’immagine centrale, costituiscono, di quella stessa immagine, il vero fondamento, una sorta di ossatura sotterranea fortemente simbolica, che costituisce il vero continuum temporale dell’intera opera, mentre l’immagine rappresentata, per quanto apparentemente di più facile e immediata interpretazione, tende sempre più a polverizzarsi, a erodersi, a divenire evanescente fino a scomparire – quasi fosse, questo complesso lavoro pittorico-scultoreo, una metafora della nostra stessa vita, dove la “raffigurazione” del quotidiano non è che l’apparenza di una più intricata e sotterranea rete di conoscenze, di intuizioni, di energie sotterranee che tutti noi ci portiamo dentro, e che non scomparirà con la fine della nostra vita terrena.

Ma Lin, 2020.

L’ultimo, bellissimo, straordinario quadro di Ma Lin – che ancora oggi compare, come ultimo, drammatico e potentissimo monito, sul suo profilo instagram –, è il volto di un vecchio. Un vecchio sapiente, forse, un vecchio saggio, un dio-uomo che ci guarda, come lo Zarathustra nicciano, “dalle cime più alte” (“E ancora una cosa so: ora mi trovo davanti alla mia ultima vetta e davanti a ciò che più a lungo mi fu risparmiato. Ah, debbo salire la più dura delle mie vette! Ah, ho incominciato la più solitaria delle mie peregrinazioni!”), forse un santone, un poeta, uno sciamano, un sapiente del mondo, o un sacerdote di chissà che religione: un vecchio dai lunghi, svolazzanti capelli bianchi, con una mascherina sul volto, sulla quale è scritto: 2020. Intorno a lui, i frammenti, i cocci di un mondo, di un universo, e di un anno – questo dannatissimo 2020, che lo stesso Ma Lin non ha potuto superare, rimanendone ancorato per sempre – vagano, sparsi, nell’aria. Il suo sguardo, magnetico, profondo, cosciente come se provenisse da un altro tempo, o forse da un’altra dimensione, guarda di fronte a sé, nel vuoto. Quest’uomo sa forse già tutto, conosce tutto, capisce tutto, il presente il passato e il futuro, ma non può rivelare nulla a noi, poveri mortali, perché il compito dell’uomo, dunque di tutti noi, è quello di scoprire, da soli, faticosamente e dolorosamente, quel che ci attende laggiù, in fondo al nostro cammino.

Alessandro Riva, 10 novembre 2020