Addio ad Angelo Davoli, cantore del paesaggio contemporaneo

È stato un duro colpo per i tanti che l’avevano ammirato come artista, e che gli avevano voluto bene come uomo, ricevere la notizia della scomparsa di Angelo Davoli, 54 anni, reggiano, straordinario pittore di paesaggi urbani, di capannoni e di silos che si stagliavano su cieli perfettamente tersi e azzurri. A ricordarlo con parole commosse (“Angelo non è più tra noi: si è trasformato in luce e ha iniziato il suo cammino verso i suoi cieli azzurri, quei cieli che per anni ha dipinto con grande maestria”) è stata la moglie, Cristina Bolognesi, che ne ha ricordato le straordinarie doti umane e la grande raffinatezza di artista e di pittore. La pittura di Davoli è sempre stata semplice, nella sua perfetta levigatezza formale e nella sua oggettiva bellezza, e allo stesso tempo complessa, perché si prestava volutamente all’equivoco di un “facile” realismo, essendo e rimanendo invece una pittura dalla vocazione profondamente e autenticamente intellettuale, tutt’altro che di facile e immediata lettura. Quella di Davoli è infatti una pittura che ha sempre mescolato riferimenti e suggestioni diversissimi, sapendoli armonizzare con una profonda conoscenza tecnica ma anche con grande sapienza e intelligenza, tra riflessioni sul paesaggio contemporaneo e spinte verso una dimensione spirituale dell’uomo e della natura, tra realismo pittorico e ragionamento sul senso ultimo dell’immagine dipinta.

Nei quadri di Davoli c’è tutto il fiato della natura e quello dell’uomo, a convivere e scontrarsi eternamente, c’è il tentativo dell’uomo di cercare un interlocutore nel cielo come avveniva ai tempi delle grandi cattedrali gotiche, c’è la voglia, la necessità di dar corpo a uno scontro di volontà e di sentimenti presenti nel cuore della contemporaneità, nella natura addomesticata dell’oggi, dove al profilo dei campanili delle chiese s’è sostituito quello dei silos e delle ciminiere: arrivando al paradosso di dipingere i cieli direttamente sul corpo di veri silos, nel corso di un’operazione coraggiosa e fuori dalle righe, che rimandava più al classico linguaggio da street artist che a quello da pittore tradizionale.

Quello di Davoli è un lavoro che colpisce allo stomaco e al cuore di chi vive questo tempo con l’incertezza del dubbio e con la fascinazione di esserci immerso dentro fino al collo, dove i silos e i capannoni sono ormai parte integrante del nostro paesaggio interiore e insieme già materia da robivecchio, sono un vuluns irreparabile nella bellezza del paesaggio naturale e un’icona del presente, e del passato più recente, di struggente e angosciante malinconia. Le loro linee singolarmente allungate, le loro punte misticamente protese verso il cielo, il loro carattere ruvido, industriale, di contro alla bellezza e alla forza libera della natura, sono il simbolo di un’epoca in cui lo scontro tra umano e naturale, e tra umano e spirituale, si gioca sul terreno dell’immagine, e non più su quello della religione; di un’epoca nella quale non ci sono più cattedrali da costruire, perché non ci sono più dèi in cui credere, e dove le macerie delle vecchie fabbriche sono diventate, piano piano, sottilmente, inavvertitamente, materiale buono per i nostalgici dell’oggi e per gli archeologi del domani.

Anche dal punto di vista stilistico, la sua pittura ha mantenuto in tutti questi anni una forte impronta originale, oltre che anticonvenzionale: a fronte di un progressivo raffreddamento un po’ glamour di molta pittura recente, infatti, Davoli ha battuto una via ben più ardua, oltre che poco politicamente corretta: quella di un mix di naturalismo ottocentesco e di freddezza iperrealista, dove l’elemento naturale pare sovrastare, con la forza della sua spinta dal basso (la selva di alberi che premono sotto al corpo delle fabbriche e delle ciminiere) e dall’alto (le nuvole che s’addensano nel cielo) sull’elemento “umano” – rappresentato dai silos, dalle ciminiere, dalla massa di travi e di scivoli e ponti che costituiscono queste strane cittadelle fortificate dell’alba del capitalismo. Il risultato è, così, un singolare esempio non tanto o non solo, com’è avvenuto per molti dei suoi coetanei in questi anni, una ripresa e una ridefinizione, anche provocatoria, di un genere – quello della pittura di paesaggio – da tempo passato nel dimenticatoio e riscoperto solo di recente; quanto addirittura – e in questo il suo discorso era ancora più estremo – di due sottogeneri, quelli del vedutismo e del rovinismo, dove agli antichi anfiteatri romani, ai paesaggi della campagna italiana ancora immacolata, alle vedute di antiche città immerse nel silenzio splendente delle valli del Tevere o dell’Arno, l’artista ha sostituito i simboli del nostro passato prossimo – silos arrugginiti troneggianti in mezzo alla campagna, vecchi capannoni abbandonati ma ancora imponenti, antiche ciminiere in ferro consunte dal tempo.

La pittura di Davoli è stata così un simbolo straordinario della fugacità del tempo, della relatività dei concetti di presente e passato, oltre che della nostra tendenza a stupirci, a commuoverci e a emozionarci di fronte a simboli e feticci che solo ieri ci sembravano come elementi naturali del nostro più privato paesaggio interiore, e oggi non sono diventate altro che metafore delle inconciliabili contraddizioni del contemporaneo.

Alessandro Riva

Angelo Davoli "Harmony 1", cieli e scritte dipinti su silos.
Angelo Davoli “Harmony 1”, cieli e scritte dipinti su silos.