Addio a Mitoraj, lo scultore della classicità perduta

di Alessandro Riva

È stato uno dei grandi artisti contemporanei. Le sue sculture, che hanno sempre guardato alla classicità con una sensibilità del tutto originale, mai citazionista né venata di inutile nostalgia, ma pregna, piuttosto, di inquietudine e a tratti anche di un fortissimo senso di tragedia, hanno lasciato un segno indelebile nella scena artistica internazionale. Ora Igor Mitoraj se n’è andato, all’età di 70 anni: da alcuni mesi era a Parigi, ricoverato in ospedale, per una malattia che non gli ha lasciato scampo. Ma le sue creazioni restano, indelebili, intramontabili.

Erano passati più di 40 anni da quando aveva lasciato Cracovia per “fare qualcosa di importante”. In mezzo c’erano stati molti sogni, speranze, peregrinazioni per l’Europa alla ricerca di un posto dove stabilirsi, se non proprio definitivamente, per lo meno abbastanza a lungo per poter creare in pace le sue teste e i suoi busti di marmo. Aveva lavorato ovunque in Europa, spingendosi fino in Messico: “Mi è servito per allontanarmi dall’Europa e guardarla da lontano. Così ho scoperto che appartenevo veramente al Vecchio continente, e sono tornato”, diceva. Ora Mitoraj viveva a Pietrasanta da molti anni, dove realizzava le sue sculture.

igor_mitoraj_ritrattoA Pietrasanta, nella città del marmo e degli scalpellini più bravi d’Italia, la città dove tra la primavera e l’estate arrivano gli scultori da ogni parte del mondo per lavorare e stare tra di loro, studiarsi, fiutarsi, guardarsi da lontano e vivere quella sorta di Parnaso dell’arte che a volte rinasce qua e là nel mondo per qualche strano motivo. Qui, nella piazza, spesso campeggiava uno dei suoi eroi in bronzo o in marmo, uno di quegli eroi inquietanti a cui l’artista ci aveva abituato da anni, uno di quei “guerrieri in tempo di pace, pronti a mostrare tutta la loro energia e tutta la loro dolcezza”, nei quali Vittorio Sgarbi ha visto una “nostalgia di una integrità perduta e irrecuperabile”. Perché gli eroi di Mitoraj sono eroi spezzati, vinti, ridotti a brandelli, a frammenti, quasi che la crisi e la caducità del nostro mondo avesse fatalmente contagiato anche la loro essenza eterna e divina. “Ciò che sopravvive”, ha scritto Sgarbi, “è quanto resta di un mondo che fu perfetto, che forse non è mai esistito. Mitoraj più che scolpire, scava, come un archeologo, le proprie immagini, le trova sotto strati di terra sui quali nuove civiltà hanno sommerso le precedenti e in particolare la civiltà delle civiltà, quella greca”. Anche se poi, a guardar bene, le statue di Mitoraj, quei busti fasciati e avvinti in bende, in legacci, o spezzati a metà da improvvise ferite e strane finestre che si aprono loro nel petto, sui fianchi o in qualche altro pertugio scavato nel vivo della loro carne di marmo e di pietra, sono eroi che provengono da culture diverse, mescolate tra loro in modo selvaggio. Non c’è, come potrebbe sembrare, solo la Grecia, la purezza scultorea di Fidia o di Lisippo nei loro cromosomi. C’è anche la maestosità fuori scala di molta cultura antica orientale, e poi tutta la crisi dell’arte e dell’identità del Novecento europeo, giunta in lui come al suo grado più estremo, nel punto esatto di fusione tra la solidità dell’antico e la fragilità e l’instabile disequilibrio di molta arte contemporanea. E non è un caso, allora, che lo stesso Mitoraj, quando gli si chiedeva quale fosse l’artista a cui ha guardato di più, non citasse per primi né i greci, né tantomeno i neoclassici, ma piuttosto Brancusi, Giacometti, Marino Marini. Anche se, diceva, “l’arte antica rimane per me ancora la più emozionante. Io sono impastato di latinità e di oriente. Sono nato a Cracovia, che è crogiuolo di questi due mondi”.

2510803_igor-mitoraj-na-krakowskim-rynkuIn realtà, Mitoraj non era nato a Cracovia, ma in Germania, ad Oederan, nel 1944, in pieno orrore nazista. La madre era stata deportata, il padre era prigioniero di guerra. Finita la guerra, i Mitoraj tornarono in Polonia, a Cracovia. La sua era una famiglia borghese come tante, che dovette fare i conti prima con l’invasione tedesca, poi con l’instaurazione del regime comunista. I Mitoraj abitavano alla periferia della città. Il futuro scultore crebbe leggendo molto (“il mio autore preferito era Faulkner”) e andando al cinema, soprattutto per vedere i film del nascente neorealismo italiano. Dopo il liceo artistico, si iscrisse all’Accademia, dove fu suggestionato dai grandi gessi impolverati raffiguranti teste di dei e di eroi. “La mia immaginazione”, racconterà in seguito l’artista, “immaginava, sugli armadietti, il gesso grandioso di un dio romano, troppo bello per quel luogo, con la fronte paziente esposta senza tempo alla polvere e alla luce grigia”. Ma qui l’artista, oltre ad avere la prima folgorazione sugli archetipi d’una cultura ormai priva d’ogni idea di grandezza e di pomposità che tanto lo affascinò e lo segnò nella sua futura carriera di scultore, ebbe anche la fortuna di incontrare un insegnante di pittura d’eccezione: il drammaturgo Tadeusz Kantor. “Kantor viaggiava, insegnava in Germania, aveva un laboratorio a Firenze. Fu lui a farci conoscere Andy Warhol, Roy Kichtenstein, Yves Klein. Con lui si sperimentava molto, dalla body art all’iperrealismo”. Nel 1968, mentre il mondo, da Berkeley a Parigi a Roma, si infiammava e scopriva la rivolta dei figli contro i padri, Mitoraj decise di far il grande salto. A spingerlo ad abbandonare la Polonia fu proprio Kantor. “Vattene, mi disse, lascia Cracovia. Soltanto così potrai fare qualcosa di importante”. E lui partì. La prima tappa fu Parigi, dove si diede da fare in mille modi diversi per sbarcare il lunario. Fece l’uomo di fatica e il facchino, ma anche il pittore di strada. “Sognavo di fare l’artista”, dirà in seguito; ma intanto si accontentava di vivere la Parigi inquieta e fantastica di quegli anni, in un clima che lui stesso definirà “soprattutto molto allegro”. Ė qui che realizza le prime sculture, i primi eroi fasciati in bendaggi che, in qualche modo, richiamavano alla mente i contemporanei esperimenti tentati da quella folta e geniale pattuglia di artisti italiani che andava sotto il nome di arte povera. Nel 1976, la prima mostra personale, alla galleria La Hune, con lo scultore, ancora del tutto sconosciuto nell’ambiente artistico e povero in canna, che si era indebitato fino all’osso per realizzare i bronzi (“ero molto preoccupato, ma per fortuna vendetti tutte le sculture e così potei ripagare la fonderia”).

quadri+644Quindi il viaggio in Messico, a studiare la scultura azteca, e il ritorno a Parigi, dove Mitoraj comincia a eseguire sculture più grandi, secondo una tendenza che non abbandonerà mai, neanche in seguito. Soprattutto, comincia a pensare e a teorizzare quella poetica del frammento, della scultura monca, imperfetta, eppure ancora solida e imponente, che lo seguirà per tutta la vita. Una poetica che è poi l’espressione stessa della modernità di Mitoraj, e che lo fece fin da subito allontanare da qualsiasi idea consolatoria della storia e del passato, facendolo invece avvicinare, piuttosto, a poeti come Kafavis, Penna, o gli stessi gruppi dell’avanguardia letteraria degli anni Sessanta, e che ha fatto dire allo scrittore Giorgio Soavi che “se c’è un eroe greco o romano a noi contemporaneo, questo eroe sta nelle sculture di Mitoraj”.

Il primo viaggio in Italia è del 1978. “Qualcuno mi aveva parlato di Pietrasanta. Pensavo a un villaggio sul mare, con scogli di marmo su cui si frangevano i flutti, e gli artigiani che lavoravano sulla spiaggia. La realtà che trovai era ben diversa”. Nonostante la delusione iniziale, a Pietrasanta Mitoraj scopre per la prima volta il marmo, la materia che più caratterizzerà la sua produzione in seguito. Per l’artista è una lunga peregrinazione verso la presa di possesso piena e completa della materia; un viaggio fatto di avvicinamenti progressivi, di visite ai marmisti nei loro laboratori, di scambi di idee con personaggi e scultori che già lavoravano sul posto da anni. Nella cittadina toscana Mitoraj inizia a lavorare con una tecnica, una pratica che assomiglia sempre di più a un rituale, ma che in realtà ha più d’un punto in comune con il lavoro di molti degli scultori di questo secolo. Non c’è intenzionalità, studio o progetto ben definito nel lavoro iniziale dell’artista; c’è, invece, quella che lo scultore definisce “un’emozione, un’atmosfera, un ricordo”, o anche “un desiderio astratto che lentamente prende forma”.

E la scultura, per quanto sia difficile crederlo, non nasce come un frammento già selezionato dalla mente o dalla volontà dell’artista: nasce invece intera, e soltanto in seguito da quella viene selezionato ciò che all’artista più interessa, quello che si potrebbe chiamare il punto focale dell’opera, e che finisce poi per diventare l’opera stessa. E pian piano nasce, soprattutto, quella complessità dell’opera che diventerà una delle caratteristiche di Mitoraj; quel vedere il passato come un campionario di simboli e di riferimenti che si intrecciano indissolubilmente uno nell’altro, che si fanno carne e sangue e materia senza alcuna illusione di apollinea perfezione e di recupero di un passato che non ha più motivo di essere. “Se c’è un artista che non ho mai amato, quello è Canova, che ha privato dell’anima l’arte classica”, diceva. “Canova è al mio esatto opposto”. Se Canova è il classico puro, sereno e privo di anima, Mitoraj era invece il classico che si è contaminato, si è sporcato, si è infettato con i germi della modernità.

6979830144_013b15f8a0_z

C’è un particolare delle sculture di Mitoraj, un piccolo tocco che è diventato una sua cifra stilistica, un refrain, quasi una firma. Ė una finestrella che i suoi eroi portano sul petto, all’altezza del cuore o in altri punti del corpo. Dentro a questa finestra c’è un altro eroe, più piccolo, che salta fuori come un dio minore, o un diavoletto, o forse soltanto un figlio più umano di quegli irraggiungibili esseri metà uomini e metà dei, o, come ha scritto Soavi, “un complice dichiarato che offre, con la sua presenza animata, lo spettacolo e l’ironia del nostro tempo”. In quel proliferare di piccoli eroi minori, di dèi detronizzati nati dal corpo stesso dei suoi primi eroi, c’è forse la chiave per comprendere l’opera di Mitoraj. Quei piccoli esseri che, come Dioniso, il dio notturno, il dio dell’eccesso e della follia, un bel giorno saltò fuori come per magia dalla coscia di Zeus, sono forse l’essenza stessa della contemporaneità, che con le sue contraddizioni, il suo scetticismo e la sua incurabile mancanza di fede e di certezze, ha finito per inquinare anche la stessa idea del passato.