di Sun Chong
Una tra le più grandi e storiche prigioni degli Stati Uniti, Alcatraz, è la sede dell’ultimo progetto dell’artista, e attivista politico, Ai Weiwei. Il fatto che l’artista abbia scelto proprio un penitenziario come sede di una mostra è insieme un atto paradossale e fortemente simbolico: Ai Weiwei infatti non solo tratta, nel suo lavoro, spesso di argomenti inerenti i diritti civili e la libertà di espressione, ma è egli stesso impossibilitato a uscire dal suo paese natale, la Cina. E, non a caso, anche questa volta la mostra è interamente incentrata su temi quali la repressione, la libertà dei parola e l‘impossibilità di esprimere il proprio pensiero. La mostra, che si intitola @Large, è costituita da una serie di installazioni sparse per il corpo dell’ex penitenziario. Altro paradosso: l’artista ha creato le sue installazioni site-specific, pur non avendo avuto la possibilità di visitare il luogo dove avrebbero dovuto essere collocate, affidandosi interamente al suo direttore esecutivo, Cheryl Haines.
La mostra, che si ispira contemporaneamente alla storia della più celebre – e famigerata – prigione americana (nata come fortezza militare nel XIX secolo prima di essere convertita in carcere federale), ma anche all’esperienza diretta dell’artista, imprigionato nel 2011 dalle autorità cinesi, è costituita da una serie di installazioni che comprendono sculture, tracce audio, poster, mixed media, che si snodano lungo diversi padiglioni della struttura dell’ex penitenziario, oggi in stato di semi-abbandono malgrado gli oltre un milione di turisti che ogni anno si recano a visitarlo. La visita all’esposizione diventa così una singolare full immersion nell’esperienza dolorosa ed emotiva dell’isolamento e della detenzione.
La prima opera che i visitatori, entrando nella mostra, si trovano di fronte è quella di un enorme aquilone, realizzato interamente con sete e fogli di carta colorata, dalla tradizionale forma di drago cinese, che si snoda per un intero padiglione della struttura, punteggiata da colonne. Ogni pezzo di questo sorprendente e meraviglioso manufatto artistico è stato realizzato da artigiani cinesi. L’effetto paradossale di soffocamento e insieme di aspirazione alla libertà, offerta da questo immenso drago nato per volare alto nel cielo e costretto invece a restare imprigionato tra le solide mura dell’ex penitenziario, è sorprendente e insieme fortemente metaforico. Tra i colori sgargianti e allegri, si possono, a mo’ di spiegazione un poco didascalica, leggere citazioni di sostenitori dei diritti umani e della libertà di espressione.
In un’altra sala, ecco invece un’altra installazione (“Trace”) più che mai esplicita, che riunisce 176 ritratti, realizzati in mattoncini Lego da oltre ottanta volontari, reclutati a San Francisco, di attivisti politici che, a livello internazionale, sono stati imprigionati a causa delle loro idee: ancora una volta, la tecnica dei mattoncini Lego, espressione di lavoro collettivo e di moltitudine, si scontra e insieme si integra perfettamente al concetto di identità espresso nei singoli ritratti, quasi si creasse una perfetta integrazione tra la dimensione individuale e collettiva.
Refraction èinvece il titolo dell’installazione successiva, che il visitatore si trova di fronte nel corso della visita. L’installazione si compone di una grande scultura, formata dai pannelli solari utilizzati in Tibet per creare energia, e che rappresenta, ancora una volta, una specie di ala d’argento saldamente ancorata al pavimento: ancora una volta, una metafora della costrizione e della negazione della libertà. A rafforzare il concetto, e a richiamare alla mente del visitatore una delle zone maggiormente colpite dal dominio cinese, il Tibet, una serie di bollitori da tè, tipici di quella zona.
Stay Tuned (“stai connesso”, nel tipico gergo informatico della postmodernità digitale) è l’ironico e insieme malinconico titolo di un’altra installazione, che prevede che il visitatore entri nelle celle dei singoli detenuti, per vivere sulla propria pelle l’esperienza della detenzione: all’interno di ogni cella, si trova un tipico sgabello tradizionale cinese, su cui il visitatore si potrà sedere per ascoltare, in una voce registrata, diverse espressioni di protesta provenienti da tutto il mondo. Ci sono le canzoni della celebre band punk-femminista russa delle Pussy Riot, quelle della cantante tibetana Lolo e quelle del poeta iraniano Ahmad Shamlu, tanto per fare alcuni significativi esempi.
Ancora un’installazione sonora (Illumination), quella che mette in relazione, nella zona psichiatrica dell’ex penitenziario, un canto delle tribù “indiane” dell’America (oggi più correttamente chiamati i “nativi americani” nel gergo del politically correct globale), con uno tibetano, a mettere chiaramente in relazione (e di nuovo, in maniera forse leggermente didascalica) le espressioni artistiche di due etnie ”perdenti” della storia, perché schiacciate dalla potenza di due oppressori, gli Stati Uniti e la Cina Popolare. Particolarmente significativo, però, dato il luogo in cui sono installati, è che i canti dei nativi americani siano, nello specifico, quelli della tribù Hopi, una delle tribù indiane i cui membri vennero realmente imprigionati ad Alcatraz nel XIX secolo perché si rifiutavano di mandare i propri figli nelle scuole americane, rifiutando così un’integrazione forzata che veniva vissuta come violenza e sopruso culturale.
Proseguendo attraverso il reparto dell’ospedale interno, si trovano diverse celle di grandi dimensioni, con lavandini, servizi igienici e vasche da bagno. Ognuno di questi apparecchi sanitari sono pieni fino all’orlo di piccoli fiori di porcellana. L’installazione, intitolata Blossom, riporta alla mente la Campagna dei Cento Fiori, una stagione di liberalizzazione della vita culturale, politica, economica e sociale avviata in Cina negli anni Cinquanta, e che riprendeva una celebre frase del Presidente Mao, che nel 1956 aveva augurato “che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”; periodo poi sfociato in un periodo successivo di dura repressione e di ritorno all’ordine, nel momento in cui la liberalizzazione generalizzata rischiava di degenerare in critica aperta al sistema e al Partito Comunista: col tragico risultato che la stessa libertà concessa divenne poi comodo strumento di ricatto da parte del potere per chi si era troppo esposto, manifestando il proprio dissenso dalla linea del Partito.
Infine, l’ultima sala, intitolata Yours Truly, contiene una sorta di installazione interattiva, che prevede il coinvolgimento diretto del pubblico: in una grande stanza un tempo usata come sala da pranzo per i detenuti, ecco infatti una serie di tavoli e una libreria, sulla quale i visitatori trovano delle cartoline pre-stampate, sul dorso delle quali è indicato l’indirizzo degli attivisti imprigionati in tutto il mondo, il cui volto è riprodotto coi mattoncini Lego nell’installazione che apre la mostra. I visitatori sono invitati a scrivere messaggi a questi detenuti, che saranno poi spediti dallo staff di @Large ai destinatari. Un invito esplicito al visitatore a farsi esso stesso attivista e agitatore politico.
@Large: Ai Weiwei on Alcatraz
September 27, 2014 – April 26, 2015 at Alcatraz Island