di Alessandro Riva
Ho visto al cinema “Il sol dell’avvenire”. L’ho visto, aggiungo, con un amico di una ventina d’anni. Inutile dire che a lui è parso del tutto astruso. Non capiva non dico la trama (che non c’è), non dico l’ironia (purtroppo sparita con l’età avanzata di Moretti), ma neppure il perché un film del genere possa arrivare nelle sale, possa essere prodotto, possa anche solo essere pensato oggi da un regista con la testa sulle spalle. A dirla tutta, benché io abbia amato alla follia i film di Moretti ai suoi, e ai miei, tempi, non l’ho capito neppure io.
Ricapitoliamo. Quando ho visto la scena iniziale, mi sono sfregato le mani. Ho detto: bello. Un bel film storico, sugli anni Cinquanta, sul cosa poteva voler dire essere di sinistra, anzi comunista, a quei tempi, con le speranze, le contraddizioni, i dubbi e le certezze che contraddistinguevano i giovani compagni in quegli anni. Aggiungo, ancora: io, sebbene un po’ più avanti, almeno di una ventina d’anni, le sezioni del Pci le ho frequentate, da giovane militante della Fgci. Ne conoscevo dunque le atmosfere, le dinamiche, le gioie e anche le monotonie, i grigiori, le ottusità e le tristezze. E conoscevo, e conosco, bene quella storia, cui nel bene e nel male sento di appartenere. Bene, dunque, mi son detto: il film, alla primissima scena, prometteva bene. Fino al minuto 3, diciamo – quello in cui i manager Netlfix, nel film, calcolano debba esserci il primo colpo di scena, senza il quale lo spettatore cambia canale, come si sarebbe detto un tempo, o sceglie un’altra serie, come si direbbe oggi.
E invece. Invece, più o meno al minuto 3, forse prima, Moretti comincia subito a perdere colpi. Per l’appunto. Abbandona la trama – l’unica cosa per cui vale la pena di vedere un film, oggi –, per darsi al metacinema. Al fellinismo cotto e stracotto (circhi, atmosfere oniriche e compagnia bella). Soprattutto, a snervarci con un continuo saltabeccare dalla trama che avremmo, quella sì, voluto vedere – la vicenda dei compagni della sezione Antonio Gramsci del Quarticciolo, in crisi per l’invasione dei carri armati sovietici a Budapest durante la rivolta del ‘56 – alle noiosissime scene della vita quotidiana del Moretti attuale, o della sua controfigura narrativa, tra tic senili, malinconici autocompiacimenti e fatale incomprensione della realtà di oggi (oltre che del cinema di oggi). Così, in un snervante saltabeccare da minuscoli assaggi della “vera” trama del film che avremmo potuto vedere, ma che Moretti non ha avuto il coraggio o la capacità di girare veramente (quello sulla crisi della sinistra ortodossa, in un momento in cui anche il ‘68 era ancora di là da venire e il Pci era ancora graniticamente filosovietico, pur tra i dubbi e le crisi esistenziali dei compagni meno monoteisticamente allineati ai diktat del centralismo democratico togliattiano), alle malinconiche scene dell’oggi, in cui il protagonista-alter ego recita la sua parte di inguaribile “non omologato”, senza però più la verve e l’energia che lo contraddistingueva (e ce lo faceva amare tanto, quand’era più giovane), il film si perde, annoia oltre ogni limite e non decolla mai. Lasciandoci l’amarezza in bocca, per il film che avremmo potuto e voluto vedere, e di cui le scene appena accennate, e mai approfondite (dalla scena d’amore tra il segretario della sezione e la giovane compagna ribelle, all’amore clandestino, perché omosessuale, tra il giornalista dell’Unità e il giovane praticante, e poi le crisi, le discussioni, le voci del quartiere, quel “fuori scena” corale che rende grandi e simboliche pellicole indimenticabili come “Una giornata particolare”, e che qui semplicemente si diluiscono in un magma indistinto di macchiette e cliché) ci rimangono in testa come simboli perfetti di una grande occasione mancata. Lasciandoci, però, con un’unica certezza: che la “vecchia” sinistra, quella che ancora si crogiola nella propria inadeguatezza nel leggere e capire il presente, non è più in grado neppure di raccontare, emozionando e scuotendo, non solo a noi che l’abbiamo vissuta, ma neppure alle nuove generazioni, la propria storia e i motivi per cui, nel tempo, ha miseramente e tragicamente fallito ogni tentativo di sopravvivere a se stessa.