di Arnaldo Romani Brizzi
Mi ricordo un’estate. Come in una canzone francese con testo tradotto da Franco Califano («Ma l’estate somiglia a un gioco, è stupenda ma dura poco»), nell’estate del 1970 che, non so perché, ricordo come un’estate brevissima (rispetto alle precedenti in cui, evidentemente, la mia percezione del tempo era più da fanciullo, quindi rallentata), sul finire della vacanza, già dopo Ferragosto, la nostra compagnia di amici e amiche si trascinava un po’ annoiata – dalla spiaggia alla pineta, dalla pineta all’albergo, dall’albergo al Dancing. Riviera Adriatica, San Benedetto del Tronto. Io, diciassettenne, frequentavo gli amici dei miei cugini, tutti più grandi di me.

Una sera, in questa compagnia, nella bella casa nei pressi di Acquaviva di un medico romano (il cui figliolo corteggiava mia cugina), ci fu l’aggiunta di una coppia che non avevo mai visto. La coppia venne in compagnia di una nostra amica che li conosceva e, se ben ricordo, li aveva incontrati per caso in spiaggia. Lui aveva l’aspetto tipico dei ragazzi «creativi» del tempo, con occhiali da vista dalla grande montatura e capelli lunghi; lei era una bella ragazza, dallo sguardo vivacissimo. Erano Gianfranco Notargiacomo, e la sua (allora) fidanzata (poi moglie inseparabile) Anna Lo Bianco (storica dell’arte, attuale direttore di Palazzo Barberini qui a Roma). Ci divertimmo, ricordo, e tutti ci dichiarammo appassionati della provincia di Ascoli Piceno, delle sue bellezze, delle sue tracce storiche.
Poi, appunto, partenza. Arrivo a Roma, preparativi per la riapertura dell’anno scolastico che quell’anno era prevista per lunedì 5 ottobre (il giorno precedente, domenica 4, era morta di morte scellerata Janis Joplin, la supercantante del tempo). Gli incontri e i saluti, l’allegria della ripresa, vecchi amici e nuovi compagni. Io ero nella sezione A del Liceo Mamiani che quell’anno, però, si era separato dalla sua succursale di via Giordano Bruno; succursale che si era quindi trasformata nel Liceo Cornelio Tacito, dove la mia classe fu distaccata. Eravamo molto colpiti, tutti, dalla novità (per restare mamianino, infatti, avrei dovuto iscrivermi a un’altra classe, separandomi dai miei ben amati compagni – non lo feci). Dopo alcuni giorni, presi a frequentare anche alcuni ragazzi della sezione B che mi erano molto simpatici. Entrando nell’aula della seconda B, durante la ricreazione, incontrai il loro nuovo insegnante di filosofia. Riconobbi subito Gianfranco Notargiacomo, con il quale parlai immediatamente del nostro incontro marchigiano che anche lui ricordava bene. Scoprii, così, che era laureato in filosofia e che per quell’anno avrebbe insegnato nella sezione B del nuovo liceo.
Le sorprese non finirono qui. Dopo alcuni mesi, verso la fine di febbraio, la nostra insegnante di storia dell’arte ci informò che il professor Notargiacomo, oltre a insegnare filosofia, era un artista che avrebbe, da lì a pochi giorni, esposto nientemeno che nella Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis.

La Tartaruga era stata per me, e per alcuni miei compagni di classe, un luogo di meravigliose fantasie, in specie durante il periodo del Teatro delle Mostre, nel 1968 (dal 6 al 31 maggio), fantastica e teatralissima idea di Plinio il Grande De Martiis, sostenuta all’epoca dal genio critico di Maurizio Calvesi. Un grande Festival quotidiano, una performance al giorno, di artisti attivi tra pittura delle ultime formulazioni, Arte Povera e Concettualità, a partire da Giosetta Fioroni, che fu la prima, passando per Giulio Paolini (un suo autoritratto come il doganiere Rousseau, in compagnia di amici, scrittori e artisti), e poi Mario Ceroli (Dal Caldo al Freddo), e altri, tra cui il mio preferito all’epoca: Cesare Tacchi con il suo Cancellazione d’artista. Mi emozionò per quella che oggi posso considerare un’azione nihilista: questo bell’uomo che – seduto su uno sgabello, chiuso in una nicchia ricoperta da una parete trasparente (non so se fosse un vetro o un foglio di perspex, polimetilmetacrilato), illuminato dall’alto da una lampada – cancellava la visione di sé pennellando vernice bianca, mi commosse sino alle lacrime.
E Notargiacomo, il professor Notargiacomo avrebbe esposto in quella galleria! La sede non era più in piazza del Popolo – si era spostata in uno spazio un po’ cantina in via Principessa Clotilde (n. 1/A). Un po’ cantina – non so se per stimolo imitativo nei confronti del collega-nemico Sargentini, che aveva sconvolto il panorama artistico romano con il suo garage/Attico; o perché in quel periodo furoreggiava il teatro nelle cantine. Fatto sta che si dovevano scendere dei gradini, come entrando in un luogo degli inferi. Lì, Notargiacomo espose, sotto il titolo Le nostre divergenze, i suoi duecento omini in plastilina, alti ognuno cm 30: un’assemblea (straordinaria), un seminario (sulla gioventù), un’adunata (sediziosa) secondo il sentimento politicizzato del tempo; una festa capace di spostare il gioco infantile in una dimostrazione d’impegno giovanile, di trasformare la plastilina delle applicazioni tecniche di memoria scuole medie in materia nobile per piccole sculture di un tempo presente rivolto al futuro. Ci entusiasmammo, io e i miei compagni di scuola, cominciando a guardare e a considerare Notargiacomo sotto una luce differente. Una recensione apparve, pochi giorni dopo, a firma di Gianni Rosati (fratello del mio amico Paolo che era studente di Notargiacomo), nel mitico, per tutti noi all’epoca, Titan Avantgarde (una rivista in stile Rolling Stone, su cui scrivevano Renzo Arbore e Dario Salvatori tra gli altri). Quella sera del 5 marzo, però e come mi ha ricordato anche e proprio Notargiacomo, nevicò a Roma.
E continuò a nevicare anche il giorno successivo, il 6, con una rifinitura di altri 5 cm il giorno 7. Alle prime avvisaglie della nevicata, durante l’inaugurazione, i visitatori si stiparono nella sala della galleria; sala che, però, non era del tutto praticabile, tutta «invasa» com’era dai duecento protagonisti della mostra. Per la serie C’era questo, c’era quello (gioco, inventato dal Press Agent Enrico Lucherini, che furoreggiava durante le serate in casa di Luchino Visconti, e che poi divenne persino una trasmissione televisiva su Telemontecarlo e negli anni Novanta), c’erano naturalmente tutti gli affezionati artisti di Plinio, che però aveva già cominciato a rompere i rapporti con alcuni di loro che andavano tradendolo con Fabio Sargentini e non solo. Non so, non ricordo se ci fosse anche Goffredo Parise, scrittore ammiratissimo che non perdeva un appuntamento dall’amico De Martiis. Ricordo, però, la grande soddisfazione di Notargiacomo per gli illustri colleghi intervenuti, tra i quali Cesare Tacchi, Tano Festa, Aldo Mondino, Franco Angeli, e il gallerista Gian Enzo Sperone. Io, chissà per quale previdenza, compreso il tenore della nevicata, mi allontanai dalla mostra in tempo per poter salire su un autobus che riusciva ancora a camminare. Il giorno dopo, e anche il seguente, non si andò a scuola.

Di quella mostra De Martiis vendette molti «omini» (uno anche a Vittorio Gassman), ma si rifiutò di venderla intera al collega Sperone, e l’ensemble dell’installazione venne meno. Notargiacomo la replicò molti anni dopo, nel 2009, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, e poi nel 2013 al meraviglioso Forte Malatesta di Ascoli Piceno.
Plinio il Grande, nel 1972 e a seguito della scomparsa di sua moglie Ninnì Pirandello (la figlia di Stefano Pirandello, commediografo come Stefano Landi, e nipote di Luigi, nonno, e di Fausto, zio), decise di sospendere la sua attività espositiva. Ma fino a un certo punto, fino a quando, sul finir degli anni Settanta, confortando l’intuizione di Franco Piruca, portata a perfezionamento da un sonetto di Maurizio Calvesi, lanciò la corrente dell’Anacronismo: prima con la mostra dei tre dipinti proprio di Franco Piruca (in questi giorni visibili nella bella mostra Anni 70 a Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni della capitale), nel 1978; poi con la mostra dei Sei pittori (Alberto Abate, Stefano Di Stasio, Salvatore Marrone, Nino Panarello, Franco Piruca, Piero Pizzi Cannella), nel 1980.
Quell’Anacronismo che, insieme alla Pittura Colta, avrebbe inguaiato d’amore venticinque anni della mia attività critica e galleristica. Mannaggia a ‘sto Destino di nome Clotilde! Eh, sì, perché poi, e anche, nel 1990, con Maurizio Calvesi presentai la mostra Rosso d’Oriente di Notargiacomo, al Centro di Cultura Ausoni, nell’ex Pastificio Cerere, galleria che dirigevo con Italo Mussa. Potenti dipinti di meravigliose sciabolate di colore. Clotilde, Clotilde!