di Arnaldo Romani Brizzi
Già la sera dell’inaugurazione mi era sembrata una mostra importante. Per quello che ero riuscito a vedere in maniera approfondita, in considerazione della tanta gente e dei molti incontri che in una tale sede, e come sempre, si sono resi possibili. Rincontrare, ancorché di età maggiore e alle volte difficoltosa, alcuni dei protagonisti di un magico ed elettrizzante periodo come quello degli anni 70, è stata causa di belle emozioni: da Luca Maria Patella a Nicola Carrino, da Carlo Maria Mariani a Bruno Ceccobelli, da Giosetta Fioroni a Elisabetta Catalano, da Giuseppe Salvatori a Stefano Di Stasio, da Luigi Ontani a Gianfranco Notargiacomo, da Piero Sartogo, coordinatore dell’immagine di mostre fondamentali, a Fabio Sargentini, grande testimone e gallerista, con i quali è stato quasi d’obbligo molto chiacchierare, molto ricordare, molto rinviare il pensiero a coloro che, tra quegli artisti e critici e galleristi del tempo, non sono più con noi.
Poi giovedì sono tornato, per rileggerla con la dovuta attenzione, e avendo la conferma che quella percezione di esordio, intendo della qualità, era stata formulata con giusta sensibilità. La mostra è ben suddivisa, in capitoli e stanze che mettono a fuoco, e al meglio, alcuni dei punti nodali del dibattito e del fare di quel decennio (dalla concezione del Doppio a quella del Tutto). C’è anche una stanza-capitolo dedicata all’arte declinata in politica; e qui, forse, mi sembra di rilevare una possibile sbavatura dell’assunto espositivo, poiché, e in effetti, tutto il decennio diviene espressione di arte come azione politica proprio in virtù di quanto emerso e deflagrato dal 1968 in poi – e per tale motivazione il senso politico, a mio avviso e di altri osservatori, avrebbe dovuto aprire il percorso espositivo, quale prologo necessario a tutto il dispiegamento di opere. Dispiegamento sfarzoso, con alcuni capolavori che riaccendono belle memorie in chi ha avuto la fortuna generazionale di vederli in statu nascendi; e con la bella intuizione, in più, di porre in risalto la contemporaneità anche di momenti tra di loro dissonanti: due tardivi, ancorché bellissimi, dipinti metafisici del pictor optimus, il vate Giorgio de Chirico (di quel momento che viene definito, secondo me erroneamente, neometafisico) posti espositivamente accanto a due pazzeschi cretti di Burri; un meraviglioso dipinto di Giulio Turcato (Testa di moro), vicino alle prime prove dei Transavanguardisti in formazione, e via dicendo – in questo modo fornendo la specifica sensazione di quanto si andava vivendo nei Settanta: l’ultima stagione di grandi, immensi talenti del quasi passato, accanto alle sperimentazioni più audaci e corroborate dalle prime, totali invasioni del territorio con performance, installazioni, film e primissimi video. Senza considerare la bella e necessaria sottolineatura delle presenze straniere, vuoi per mostre (Lawrence Weiner, Richard Long, Duane Michals, e molti altri), vuoi per scelte di residenza (come nel caso di Joseph Kosuth, o Hidetoshi Nagasawa). La mostra ha la tentazione monumentale nella presentazione di novantasei artisti con un totale di duecento opere, ma non si avverte nessun senso di pesantezza, il tutto rivelandosi un itinerario giocoso e gioioso, per lo sfarzo di una intelligenza, di una imagination créatrice che sembrava non fermarsi di fronte a nulla, nemmeno alla tentazione di una noia ripetitiva che, sempre, veniva riscattata da un esibito piacere trasgressivo.

Ne nasce un, ahimé, doloroso confronto con il presente, con la nostra attualità, fatta di vuoti ideologici di opere presentate ancora sotto l’egida concettuale ma che non hanno, non sanno avere la forza propositiva, autentica e alle volte feroce, di sberleffi intellettuali che davvero giungevano alla forma e allo status d’arte, con momenti esaltanti e sublimi, convincenti e, soprattutto, soddisfacenti l’ingordigia dei saggi osservatori e amanti dell’arte.
La mostra, partendo come detto da de Chirico e da Burri, passa attraverso le evoluzioni dei protagonisti dell’Arte Povera (Boetti, Marisa Merz, Kounellis, Penone, Pistoletto…), non perdendo di vista le grandi presenze romane di piazza del Popolo (Schifano, Festa, Mauri, Mambor…), passando attraverso la singolarità aristocratica di molti protagonisti, e giungendo alle sponde della ripresa del dibattito pittorico con gli artisti della Transavanguardia, formulazione di Achille Bonito Oliva (che su un numero di “Flash Art” del tempo veniva scritta Trans-Avanguardia, con esibizione di trattino separatore), e certe iniziative specifiche come quelle di Felice Levini e Giuseppe Salvatori, di Giuseppe Gallo e Bruno Ceccobelli, di Stefano Di Stasio e del compianto Franco Piruca, autore di tre dipinti autoreferenziali in termini biografici che furono esposti in una celebre mostra a La Tartaruga, la galleria del grande Plinio De Martiis, e che diedero l’avvio alla nominazione dell’Anacronismo di Maurizio Calvesi.
Sì: proprio, e nonostante siano anche stati definiti «anni di piombo» per le note e drammaticissime vicende politiche (come quelle relative alle Brigate Rosse), una boccata d’aria pura per quanto concerne il territorio dell’arte. Sarò malinconico, potrò sembrare persino nostalgico, ma davvero viva l’arte degli anni Settanta!

Anni ’70. Arte a Roma
Palazzo delle Esposizioni, Roma 17 dicembre 2013 – 2 marzo 2014 A cura di Daniela Lancioni Catalogo Iacobelli Editore