Alex Folla a Mosca. Tra monaci, santi, Sogni Lisergici, battiti d’ala e corse su e giù per il tempo

di Alessandro Riva

La pittura di Alex Folla affonda da sempre le sue radici nella tradizione italiana più arcaica. È una pittura colta, profondamente intellettuale e allo stesso tempo orgogliosamente tecnica, artigianale, che si nutre e si ciba voracemente, facendole proprie e trasformandole in pigmento, in corpo vivo e fremente della pittura e del disegno, delle linee tracciate dai maestri della pittura del Tre e Quattrocento italiano, e su su a salire, a tratti, fino al Manierismo e al Seicento – oltre, non gli è dato di andare e di guardare, se non per sprazzi, per passioni tanto intense quanto rare, giacché, per lui, dal Seicento in avanti, gran parte della pittura, in Italia e in Europa, si trasforma fatalmente in scuola, in ripetizione fine a se stessa, in futile esercizio stilistico, privo d’anima e di cuore. Dei maestri antichi – non solo dei grandi protagonisti della pittura tre e quattrocentesca, ma anche degli artisti minori, dimenticati e lasciati in secondo piano dalla grande storia dell’arte, Alex Folla guarda voracemente e instancabilmente la tecnica, il modo di mescolare o di dosare i colori, la composizione, la capacità di modellare, con impercettibili colpi di luce e leggerissimi tocchi di pennello, vuoi un panneggio, vuoi un’espressione su un volto, vuoi un gioco compositivo o un effetto di profondità. Ma è altro, in realtà, quello che lo interessa e lo intriga. È altro, quello a cui questo pittore autentico e passionale, profondamente colto e innamorato delle tecniche pittoriche arcaiche quanto voracemente onnivoro negli interessi e nei gusti, anche i più popolari e contemporanei, guarda e cui aspira.

Alex Folla, Arcangelo Uriel, 2015.

La sua è una vocazione classica nel senso più ampio, più autentico e più profondo del termine, è il tentativo di creare, come capitava ai grandi maestri dell’antichità, un mondo e un universo di simboli che, in un’unica pala o in un’unica tavola, o in un solo progetto coerente, racchiudessero e il mondo a loro contemporaneo e la foresta di simboli che lo sottende e lo racchiude, l’approccio quotidiano del loro tempo ai grandi temi universali (la morte, la sofferenza, il dolore, la gioia, la santità, l’amore, l’odio, la guerra, etc.) e i mille affluenti di quell’universo simbolico che i filosofi, i sapienti, i teologi, gli studiosi, gli artisti vi hanno cucito e costruito intorno. La sua è la preveggenza e la leggerezza dei folli e degli artisti, che in una visione improvvisa ed epifanica sono in grado, quasi contro e oltre la propria volontà, di trovare gli inaspettati collegamenti con le opere del passato e con le macerie della storia, con il substrato, cosciente o incosciente, di leggende, di miti, di credenze popolari e di fattoidi che la storia ha via via depositato sul suo accidentato cammino.

Il progetto del Monaco di Cornolo (The Unknown Monk) si inserisce in questo quadro con perfezione quasi chirurgica. Come una di quelle intuizioni dapprima vaghe, che poi, con sempre maggior precisione e cura dei dettagli, vanno a formarsi, a costruirsi e a depositarsi dapprima nella testa e nell’immaginazione dell’artista, poi, come in un puzzle del quale si ritrovino, quasi oltre la propria volontà, con una forma di inconscia preveggenza, i vari pezzi sparsi qua e là, da un gruppo di antichi legni quasi marciti, che dovevano formare la base di un altare oggi trafugato o scomparso, alle tracce scolorite di affreschi medioevali (raffiguranti un pugno di farfalle dipinte in scoloriti pigmenti rossastri, che serviranno poi da chiave, all’artista, per cominciare a penetrare nel regno delle visioni del monaco, e poterle poi far proprie) che fanno capolino da una crepa nel muro di una chiesetta abbandonata da tempo immemorabile (la chiesa dove si dice avesse vissuto, dipinto e pregato il monaco), alle voci e leggende di paese ascoltate da bambino (preghiere in dialetto, litanie, leggende di paese, saghe pagane e precristiane), fino a un paio di vecchi sandali sbrindellati e malconci – i sandali del monaco, appunto – miracolosamente trasportati oltre il flusso del tempo fino a noi (con la misteriosa, felicissima e diabolica ambiguità dei feticci, dacché esiste la storia del mondo: se siano veri e autentici, o ricostruiti ad hoc da qualche falsario in un tempo più o meno recente, come da sempre avviene con le ossa, gli occhi, i brandelli di vestito o i chiodi delle croci delle crocifissioni dei mille martiri e santi di cui è piena la storia della Chiesa, non è dato sapere, e non ha in fondo reale importanza), ecco che, passo dopo passo, il disegno della mostra è andato via via plasmandosi; incerto dapprima, poi sempre più chiaro, diramato, complesso, con un’architettura che prendeva lentamente forma e si tramutava in sostanza, abbracciando a un tempo riferimenti stilistici e mitologici remoti, significati e memorie simboliche dell’oggi, in perfetto, armonico equilibrio tra contenuto e architettura formale, in mezzo a una selva di citazioni, di rimandi, di riferimenti incrociati, tra memoria storica reale e leggenda ritrovata, e ricostruita, come metafora di un eterno presente, sempre a un passo dal kitsch, a un passo dal citazionismo colto, a un passo dalla celebrazione pop di un tempo storico inesistente, e tuttavia perfettamente simbolico del tempo e dello spazio tout court(lo spazio della nostra memoria storica, della memoria del mondo e dello spirito), uno spazio-tempo insieme baconiano e barocco, primitivo e fantascientifico, arcaico e pop, un tempo fluido e allargato come se avesse visto inaspettatamente aprirsi le cataratte della storia e del mito nel bel mezzo della nostra esistenza quotidiana, una sorta di Giudizio Universale nel quale confluiscono a un tempo papi e missionari, martiri e santi, diavoli e poveri diavoli, mostri e disperati, anime in pena, poveri cristi, ammalati e forsennati, lapiti e centauri, generali nazipop e arcangeli rivisitati, santi bambini e supereroi mitologici, madonne e bambin gesù, santi guaritori e santi vendicatori, santi uccisi e santi uccisori, guerrieri e profeti, visionari e folli, e poi guerre, battaglie, drammi, eroismi, centauromachie, drammi privati, personali, trasformati in storie esemplari e saghe mitologiche.

Alex Folla, Le tre Moire, 2015.

Alex Folla ha così cominciato a cercare, ha ascoltato storie e raccolto tasselli mancanti, ha ritrovato le tracce di vecchie leggende e su quelle ha imbastito il suo folle, articolatissimo progetto simbolico, che è insieme nuovissimo e arcaico, stratificato di aneddoti, di segni, di storie, caotico e ferreo, folle come un sogno lisergico e coerente e allegorico come un poema epico. Come in preda a una droga magica e antica, un’Amanita muscaria o una liana amazzonica, di quelle di cui si servivano e si son sempre serviti gli stregoni e i veggenti, Alex Folla, in una sorta di trance ipnotica, estatica e furibonda, ha reinventato il mondo a immagine e somiglianza di un sogno intravisto tra le pieghe del tempo, in un lungo, simbolico istante in cui quelle che Aldous Huxley chiamava le “porte della percezione”, per un momento dischiusesi, gli hanno lasciato intravedere una diversa architettura del reale, dove le antiche leggende della storia del mondo si intrecciano con la nostra quotidianità più triviale e profana, con la mitologia del presente, con le nostre speranze sul futuro.

Ecco, allora, che la storia di un monaco sepolto e dimenticato dal tempo – The Unknown Monk–, la storia di un monaco-eremita, miniaturista, viaggiatore, entomologo, pittore e raccoglitore di antiche leggende di montagna, trovata per caso tra le vecchie pietre di un paesino della Val Masino, dove l’artista andava fin da bambino, Cornolo, di cui oggi resiste solo un pugno di case diroccate appoggiate al fianco di un monte, e rimasto per anni isolato dalla caduta di una vecchia frana, ha fornito ad Alex, come una madelaineproustiana stillatrice di ricordi e di memorie ancestrali, lo spunto per ricostruire a suo modo la storia stessa di questo presente fluido, insieme modernissimo e ancestrale, dove i simboli di un eterno presente iperpop si intrecciano indissolubilmente con i retaggi del nostro passato più antico. Ecco allora che Alex ha cominciato a ricostruire, con certosina pazienza, attraverso l’influsso, e quasi attraverso lo sguardo del solitario monaco miniaturista (in una vera operazione di trance ipnotica, di immedesimazione con l’anima, lo spirito e le visioni dell’eremita), le leggende di santi e arcangeli, di Annunciazioni e di allegorie della forza divina, di ringraziamenti e di lodi alla potenza del creato, di pentimenti e di disperazioni. E lo ha fatto rispolverando immagini, simboli e riferimenti iconografici, che la grande storia dell’arte ci ha lasciato nel tempo (dalle allegorie di Simone Martini a molta pittura sacra minore quattro e cinquecentesca), in un tripudio di santi, arcangeli, mistici, ciascuno con un suo misterioso avatar di fianco, ciascuno col suo nome, il suo motto, le sue effigi, i suoi attributi; e tuttavia, ognuno violentemente, straordinariamente e furibondamente contemporaneo, quasi ci trovassimo di fronte a una sfilza di santi laici e moderni, profondamente pop nell’accezione originaria del termine.

Alex Folla, Arcangelo Gabriele, 2015.

Ecco allora l’arcangelo Michele, il calpestatore del demonio e del drago, il più visionario degli angeli, poiché fu quello che rivelò l’apocalisse a San Giovanni, ritratto da Folla con gli sci ai piedi, come un “pattinatore di Dio”, che calpestando il demonio scivola sulla superficie della storia e del tempo; ecco Gabriele, che annuncia alla Madonna l’avvento del figlio di Dio, penetrando, come un medium, tra un nugolo di farfalle rosse, al contempo simbolo della pittura del fantomatico monaco, e metafora di un processo di illuminazione, di rivelazione, vuoi spirituale o artistica, di cui l’artista, come il poeta veggente di Rimbaud, dev’essere dionisiacamente preda per potere “leggere” la realtà del mondo (e come non vedere che Gabriele, nel quadro, ha non a caso le fattezze dello stesso artista, mentre la Madonna gravida quelle di sua moglie, Elena Trailina, artista anch’essa, entrambi pervasi dall’ebbrezza delle farfalle rosse, simbolo insieme dell’influenza del monaco sulla pittura di Alex, e dell’ebbrezza artistica e spirituale, che gli permette di vedere il mondo oltre il velo di Maja della realtà fenomenica?).

Ed ecco Uriel, il patrono delle Arti, il reggente del Sole, la fiamma di Dio, incredibilmente trasformato in centauro contemporaneo, recante in mano la candela della Fede e della conoscenza. Ecco poi Raffaele, la Medicina di Dio, che lotta contro l’impurità e la scostumatezza, raffigurato nei panni di un moderno paramedico, alle prese con la lussuria che grava sul mondo. E come non sorprendersi, poi, di fronte a Barachiele, il protettore del cielo, l’angelo della fortuna, che si riconosce perché lascia intorno a sé un cammino di petali di rosa, qua trasformato, con un colpo d’ala degno di un Tim Burton, in ufficiale nazipop dalla divisa completamente rosa?

Al loro fianco, come in una raffigurazione che è insieme cristiana e pagana, ecco poi altre pale d’altare, eco, in qualche modo, delle leggende e delle memorie raccolte nella valle, che sono le Centauromachie e le battaglie tra Lapiti e Centauri: simbolo, com’è noto, dell’eterna lotta tra l’istinto selvaggio e la civiltà.

Così Alex Folla, cantore di un tempo altro, diverso da quello convenzionale, di un tempo che scorre, come nei sogni lisergici e folli dell’ebbrezza dionisiaca o divina, alle volte a ritroso, altre volte in maniera verticale, altre ancora orizzontalmente, racchiudendo e l’oggi e l’ieri e il vicino e il lontano e il conosciuto e l’esotico in un unico progetto unitario e coerente, così Alex Folla, dicevamo, ha oggi celebrato, attraverso gli occhi e la memoria di uno sconosciutissimo, misteriosissimo, bizzarro e solitario monaco eremita, che si dice sia (forse) esistito tra le montagne di un paese oggi abbandonato e diroccato di una piccola valle del nord Italia, le lodi del creato e del suo misterioso, imperscrutabile disegno. Ha creato una sua cosmogonia e un suo complesso, articolato progetto, per rappresentare un tempo che, con la linearità del racconto, ha da molti decenni perduto anche la capacità e la speranza di poter unire in un solo sguardo il passato, il presente, la mitologia più antica e la fluida, articolata, avvolgente inconsistenza del moderno. Forse, il percorso di Alex Folla sulle tracce della nostra memoria è un primo, piccolo grande passo per provare a ricongiungere questa insanabile, drammatica frattura.

Alex Folla, la Battaglia dei Lapiti, 2015.

Alex Folla | #Unknownmonk

curated by Alessandro Riva

7 agosto 30 agosto 2015
Triumph Gallery, Moscow
3/8, Ilyinka Street, building 5
+7 495 162 0893